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La crisi dell’agricoltura passa tra gas e acqua

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Federico Massari

La guerra in Ucraina scatenata dall’invasione russa ha contribuito all’impennata del prezzo dei principali prodotti agricoli in tutto il mondo. D’altro canto, i due Paesi coinvolti nella guerra contribuiscono da soli al 77 per cento delle esportazioni mondiali di olio di semi, del 30 per cento di grano e di poco meno del 20 per cento di mais. Dati che sembrano spiegare da soli come i prezzi delle commodities agricole abbiano raggiunto prezzi così alti, tanto da ricordare quelli raggiunti durante la crisi dei mutui sub prime del 2008.

Inoltre, l’ovvia conseguenza del rincaro sul prezzo di consumo di un chilo di pane o di un chilo di pasta ha suscitato delle perplessità in un contesto in cui la filiera di prodotti con grano cento per cento italiano ha raggiunto una grande popolarità. Sebbene esistano effettivamente tali linee di prodotti, la maggior parte dell’industria alimentare italiana dipende notoriamente dall’import per soddisfare la domanda interna e sostenere un export agroalimentare che ha raggiunto i 52 miliardi di euro nel 2021. Inoltre, tra i principali fornitori di grano per il settore alimentare italiano figurano altri Paesi membri dell’Unione Europea e il Nord America, con un contributo più ristretto da parte di Ucraina e Russia.

La guerra ci porterà alla crisi alimentare?

La guerra in Ucraina non si è dimostrata al momento per l’Italia un fattore così influente da mettere in discussione la sua sicurezza alimentare dal punto di vista delle importazioni, come invece sta accadendo in altri Paesi. Nonostante ciò, sopraggiunge ad accentuare una crisi inauguratasi all’inizio del decennio con lo scoppio della pandemia, influendo sul settore agricolo italiano con maggiore intensità dal lato del rincaro energetico, ovvero del gas, che si ripercuote sia lungo la fase di trasformazione, sia sul prezzo degli input produttivi in agricoltura. Gli effetti della guerra in un mondo globalizzato prendono strade diverse, ma in un modo o nell’altro finiscono col raggiungere tutti.

L’andamento dei prezzi di grano, mais e riso.

Un aumento dei prezzi dei beni agricoli così repentino e vertiginoso ricorda la crisi finanziaria globale del 2008, e in effetti alcuni elementi si sono ripresentati: l’aumento della crescita economica globale, e dunque della domanda di alcuni prodotti che contribuisce a diminuire lo stock; la crescita dei costi dell’energia, che influisce direttamente sulla produzione e sui costi di trasporto; le restrizioni all’export di alcuni Paesi per sostenere il proprio mercato interno. Se in un primo momento la pandemia ha contribuito alla diminuzione del commercio mondiale, il successivo alleggerimento delle restrizioni come accaduto in Europa ha spinto i consumi, e dunque la domanda, dei principali beni di consumo e di energia, e del loro prezzo. In più, la situazione in Ucraina contribuisce ad alimentare un grado d’incertezza che ad oggi non sembrerebbe favorire un ritorno ai livelli precedenti la pandemia e la guerra.

I Paesi più vulnerabili

Come accennato, l’import agricolo dall’Ucraina e dalla Russia, seppur non trascurabile, non è determinante per sostenere l’industria alimentare italiana. Gli effetti della distruzione dei campi e della mancata semina di cereali estivi saranno – ma iniziano già a manifestarsi – più gravi nei Paesi del Nord Africa e dell’Asia. Egitto, Libia e Tunisia dipendono in larga parte dalla tratta commerciale che passa dal Mar d’Azov. Il governo del Cairo è intenzionato ad alzare il prezzo del pane già sussidiato, il consumo libico di cereali viene sostenuto per il 90 per cento dalle importazioni e in Tunisia sono stati introdotti in alcuni casi limiti alle quantità acquistabili di farine, con il rischio di ripercussioni di non lontana memoria. I moti del pane che aprirono la strada per alcune delle rivolte nel Nord Africa del 2011 seguirono infatti il periodo di forti rincari sul prezzo del cibo occorso durante la crisi finanziaria del 2008. 

Leggi anche: Guerra e fame, l’Ucraina nell’agroalimenare italiano.

Ma gli effetti della guerra non si limitano al solo pane. L’olio di girasole è un ingrediente fondamentale per la cucina e l’industria di molti Paesi quali India e Cina, che nel 2020 ne hanno importato una quantità che corrisponde rispettivamente a 1,9 e 1,5 miliardi di dollari. Per questi motivi la crisi in Ucraina sta spingendo i Paesi più suscettibili alle conseguenze della guerra a cercare altri partner commerciali, e ad affidarsi a prodotti sostitutivi – a seconda dei casi più economici o più disponibili – come l’olio di palma per l’olio di girasole, o come il riso con altri tipi di cereali. E se da una parte l’Italia non subisce conseguenze dirette simili a quelle dei Paesi nordafricani e di alcuni Paesi asiatici dal lato dei cereali, il suo mercato non è immune ad altri effetti riconducibili o meno alla guerra russo-ucraina. Mentre in Nord America si riaccende la polemica sugli ettari di terra dedicati alla coltivazione di mais per la produzione di bioetanolo – fattore secondo alcuni che ha contribuito sia nel 2008 sia oggi all’aumento dei prezzi del cereale – in Italia, grosso mercato di destinazione del mais nordamericano per gli allevamenti, la preoccupazione si sposta maggiormente sull’andamento del prezzo del gas.

Il legame inscindibile tra gas e agricoltura

È dall’inizio del Novecento che è noto il processo di fissazione dell’azoto atmosferico per la sintesi di concimi e fertilizzanti. Da allora, la produzione agricola mondiale è sensibilmente aumentata, data la possibilità di migliorare le condizioni di crescita delle colture, coltivare terre poco ricche di nutrienti, o proprio non idonee (i prodotti a base di azoto sono utilizzati anche per la correzione di terreni acidi e alcalini). Tuttavia ciò ha reso il settore della produzione di fertilizzanti uno dei principali destinatari del gas che ogni anno viene estratto in tutto il mondo. L’aumento vertiginoso dei prezzi del gas ha indotto da una parte alcuni Paesi esportatori netti di fertilizzanti (come proprio la Russia o la Cina) a virare verso il protezionismo per sostenere il mercato interno, dall’altra ha spinto varie aziende occidentali a ridurre, se non addirittura arrestare, la produzione, scommettendo su un ritorno a una situazione più favorevole nel breve periodo. Al costo di produzione si aggiunge ora la diminuzione dello stock in esaurimento. 

L’andamento del prezzo di grano e mais.

Infatti, gli agricoltori che non hanno fatto scorta nelle stagioni precedenti si trovano a pianificare le operazioni in un contesto di incremento continuo dei costi di produzione. Se da una parte l’aumento del prezzo dei cereali sembrerebbe stimolare più cicli di semina in un anno, lasciare il campo a riposo si prospetta come una possibilità concreta di fronte al costo dei fertilizzanti più comuni e richiesti. Si ricorda ad esempio che per coltivare il frumento tenero in Emilia Romagna è opportuno seguire il disciplinare di produzione regionale, il quale riporta che la dose standard di azoto per la concimazione da apportare a seconda delle condizioni del suolo, per ottenere una produzione tra cinque e sette tonnellate su ettaro supera i cento chili per ettaro. Per ottenere tra dieci e quattordici tonnellate di granella di mais tale dose supera anche i duecento chili per ettaro. La situazione sul mercato dei fertilizzanti in Italia potrebbe portare a un cambiamento nelle semine, rinunciando ad esempio a coltivare mais in favore di colture che richiedono meno azoto, o a propendere per un approccio meno dipendente dai fertilizzanti, con il rischio tuttavia di vedere diminuito il raccolto. Per questo motivo – ma non solo – la crisi in Ucraina influisce sul prezzo dei principali beni alimentari che troviamo sugli scaffali dei supermercati, che siano di provenienza cento per cento italiana o meno.

L’ombra dei cambiamenti climatici

A peggiorare un contesto alimentare globale che deve fare i conti con gli effetti di una pandemia e di una guerra che ha scatenato la peggior crisi umanitaria in Europa nella storia recente sopraggiunge uno degli inverni più siccitosi degli ultimi decenni. Sebbene in alcune regioni la precipitazione media nel periodo ottobre 2021-marzo 2022 sia stata superiore rispetto ad annate critiche come quella del 2007 (ma pur sempre inferiore alla norma), l’ISTAT già nel 2020 rilevava come la media dei giorni piovosi in un anno si stesse già riducendo, con un calo anche dal punto di vista della precipitazione totale media in un anno. Con il Po in secca e la portata di altri fiumi minori che continua a diminuire, la Regione Emilia-Romagna ha anticipato di un mese l’applicazione del Deflusso Minimo Vitale, ossia la quantità minima di acqua che va lasciata in un bacino naturale al momento del prelievo in modo da consentire la salvaguardia dei corsi d’acqua, ovvero in modo da garantirne una portata minima. La decisione è stata presa proprio perché la portata dei principali corsi d’acqua in Emilia Romagna ha già raggiunto con largo anticipo il livello tipico dei mesi estivi, e proprio nel momento della semina di colture primaverili. L’acqua è infatti fondamentale per preparare il letto di semina e favorire la germinazione, e oltre ai fertilizzanti azotati sempre più cari gli agricoltori sono costretti a un uso più parsimonioso delle risorse idriche, con effetti incerti sulle rese.

Ettore Prandini, presidente di Coldiretti.

Un’annata complicata per gli agricoltori, i quali si sono trovati a dover operare in un contesto di scarsità di fattori indispensabili per la produzione come l’acqua, e di sostanziale aumento dei costi. La stima di Coldiretti rispetto al rincaro del +170 per cento dei concimi, del +80 per cento di energia e del +50 per cento dei mangimi non potrà che influire notevolmente sulla capacità produttiva di aziende agricole, zootecniche e di trasformazione. Per far fronte alla situazione, l’Unione Europea ha dato il via libera in Italia alla semina di ulteriori duecentomila ettari a riposo per la coltivazione di mais per gli allevamenti, di grano duro per la filiera della pasta e di grano tenero per quella del pane. Ma ciò potrà attenuare nel breve periodo soltanto gli effetti sull’import compromesso dalla guerra in Ucraina, e influire solo in misura minore sulle variabili che spingono i costi di produzione a salire.

Leggi anche: L’agricoltura ai tempi del fascismo.

La situazione del settore alimentare italiano e mondiale è difficile da inquadrare e da prevedere, in un momento in cui i principali attori della filiera alimentare cercano di cambiare fornitori e pianificano le attività produttive in base a un prezzo dei beni finali e dei costi in continua crescita. Gli effetti più acuti si vedranno nel momento della raccolta dei cereali seminati l’autunno precedente, caratterizzato da un simile contesto dal lato dei fattori produttivi quali fertilizzanti e acqua, e dai risultati delle semine di questa primavera. Al momento, la priorità per l’Italia è quella di cercare di evitare la chiusura delle aziende agricole e degli allevamenti più colpiti da una crisi scatenata dall’incontro di più variabili, secondo quanto sostiene il presidente di Coldiretti Ettore Prandini, il quale nell’incontro col ministro per le Politiche Agricole Stefano Patuanelli dello scorso marzo ha sottolineato l’importanza dello «sblocco di 1,2 miliardi per i contratti di filiera già stanziati nel PNRR» e delle «opere di ristrutturazione e rinegoziazione del debito delle imprese agricole a venticinque anni». Una strategia d’azione non solo incentrata sull’aumento delle rese tramite l’innovazione tecnologica e strumenti di accumulo d’acqua per far fronte alla siccità, ma soprattutto indirizzata a sostenere i consumi alimentari «riducendo l’IVA» e le «filiere più in crisi a causa del conflitto, del caro energia, fermando le speculazioni sui prezzi pagati dagli agricoltori con un efficace applicazione del decreto sulle pratiche sleali».

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