Esiste una crisi umanitaria nel Canale della Manica.
Negli ultimi mesi, si è registrato un aumento notevole del flusso migratorio dalla Francia al Regno Unito. Alla fine di marzo 2022, già quattromila persone avevano attraversato i circa trenta chilometri di mare che separano i due Stati. È un numero quattro volte superiore a quello relativo allo stesso periodo nel 2021.
Lo scorso anno circa 28.500 migranti hanno sfidato le acque per arrivare nello UK. La Border Force, la polizia dei confini che si occupa anche dell’immigrazione, si aspetta che le stime duplicheranno nei prossimi dodici mesi. Il Governo aveva invece previsto circa 60mila arrivi prima della crisi ucraina: ora, dovrà rivedere le stime al rialzo.
I migranti navigano acque agitate e freddissime per cercare rifugio nel territorio di Londra. Si muovono a bordo di piccole imbarcazioni insicure, sulle quali un posto è costato loro caro. Della loro disperazione si approfittano infatti trafficanti di esseri umani e scafisti. Il loro arrivo sulle coste di Londra è immigrazione illegale.
Il governo ha definito questa situazione inaccettabile. «È un abuso conclamato delle leggi sull’immigrazione ma anche un costo notevole per i cittadini britannici e un inutile rischio di vite. Gli attraversamenti dei migranti impattano sull’abilità del Regno Unito di aiutare i rifugiati a raggiungere Londra attraverso vie sicure e legali. Giustamente, il popolo britannico ne ha avuto abbastanza».
Per questo, all’inizio di aprile 2022 l’amministrazione Johnson ha annunciato l’intenzione di ricollocamento dei migranti in Ruanda.
Voci di corridoio parlavano di un piano simile da diverse settimane, quando è arrivato l’annuncio ufficiale.
Prima però, la firma del documento ufficiale lo scorso 14 aprile. La Segretaria di Stato per gli affari interni del Regno Unito Priti Patel ha incontrato il ministro degli Esteri e della Cooperazione internazionale ruandese Victor Biruta per firmare un documento secondo il quale i migranti che raggiungono lo UK in modo irregolare saranno trasferiti in Ruanda. L’accordo ha valore retroattivo, per cui coinvolge ogni migrante giunto del Regno Unito dal primo gennaio 2022.
Sarà Londra a occuparsi del trasporto. Il governo britannico ha inoltre stabilito un budget per ogni migrante, che dovrà essere speso per le necessità di base quali le spese mediche e l’educazione. Questo supporto economico può durare fino a cinque anni: il tempo necessario, Johnson spera, perché i migranti si ricostruiscano una vita in Ruanda.
Infatti, Kigali non accoglierà solo queste persone per esaminare la loro domanda di asilo. Kigali accoglierà queste persone perché ricomincino a vivere sul suo territorio. A eccezione di alcuni (pochi) casi, il patto di ricollocamento non prevede che i migranti possano tornare nel Regno Unito. Senza riguardo per l’esito della loro richiesta d’asilo, il loro reinsediamento in Ruanda è definitivo. Se non vogliono stare lì, devono spostarsi in modo autonomo. Non verso Londra.
È proprio la prospettiva di un ricollocamento forzato e definitivo a essere l’aspetto dell’accordo più contestato.
Bisogna infatti pensare che i migranti giungono sulle coste del Regno Unito dopo viaggi di anni, durante i quali hanno spesso subito abusi e vissuto condizioni che segneranno per sempre la loro salute psicofisica. E hanno scelto di raggiungere lo UK perché credono di trovarsi sicurezza, protezione e spesso gli affetti. Una politica che li catapulta tanto lontano dalla loro meta aggiunge trauma al trauma. L’Assistant High Commissioner for Protection dell’UNHCR Gillian Triggs ha usato parole simili a Gardner: «Le persone che fuggono guerra, conflitti e persecuzioni si meritano compassione ed empatia. Non dovrebbero essere trattate come merci e trasferite all’estero per essere sottoposte all’iter burocratico di accettazione».
Sono parole che ripetono la Croce Rossa britannica e Zoe Gardner di Joint Council for the Welfare of Immigrants, organizzazione che si occupa di monitorare la legislazione e le politiche di immigrazione nel Regno Unito per assicurare la loro equità e giustizia. E che arrivano anche da Kolbassia Haoussou. Rappresentante dell’ong Freedom From Torture e lui stesso immigrato irregolare nel Regno Unito, Haiussou testimonia che il sistema di accoglienza britannico ora esistente non è “morbido” con i migranti: ricorda chiaramente che il (mal)trattamento subito al suo arrivo sulle coste britanniche gli ha fatto sviluppare una sindrome post-traumatica. Teme che possa succedere lo stesso con i migranti ricollocati.
Sul problema umanitario del piano di ricollocamento, questione che diventa di necessità anche etica, è intervenuto persino l’Arcivescovo di Canterbury Justin Welby. La massima autorità spirituale della Chiesa anglicana ha condannato la decisione del governo durante il suo sermone pasquale. Affermando che la situazione solleva questioni morali di prim’ordine, Welby ha specificato che il principio dietro ogni politica deve sempre ottenere un giudizio divino favorevole. E la politica del ricollocamento non incontra il favore divino, perché ben lontana dalla carità cristiana. Quindi, «non può rappresentare la nostra responsabilità collettiva in quanto nazione formata da valori cristiani, perché sotto-appaltare i nostri doveri (anche a un Paese che cerca di agire nel bene come il Ruanda) è l’opposto della natura di Dio, che si è caricato della responsabilità dell’intera umanità», ha detto Welby. Altri prelati si sono dischiarati concordi con il loro superiore.
Dalla religione alla politica, esterna ed interna. La leader dell’opposizione ruandese Victoire Ingabire si chiede come sia possibile per il governo di Kigali soddisfare i bisogni dei migranti oggetto del ricollocamento, se gli riesce difficile provvedere a quelli dei ruandesi. Sottolinea poi che l’accordo con Londra è stato preso quasi di nascosto, perché nessuno sapeva delle trattative con il Regno Unito. Altrimenti, si sarebbero levate forti polemiche: «Il Ruanda non è pronto a quello che il piano prospetta», rimarca ancora Ingabire.
Sunder Katwala, politico attivista e direttore della think-tank British Future che si occupa di immigrazione e integrazione, ritiene però che il ricollocamento dei migranti sia una politica destinata a non avere successo. Pensa infatti che sia una mossa dei conservatori per distrarre l’opinione pubblica britannica dai guai giudiziari e mediatici di Johnson, colpevole di aver dato una festa per il suo compleanno durante le restrizioni Covid-19 da lui stesso volute.
Alla vigilia delle elezioni locali, l’accordo con Kigali servirebbe a far capire agli elettori che i Tories hanno la situazione dell’immigrazione sotto controllo, che il Regno Unito si è riappropriato dei suoi confini come prometteva la propaganda pro-Brexit. Però, continua Katwala, lo schema del ricollocamento non può accontentare davvero nessun cittadino prossimo al voto. Gli estremisti di destra diranno che è troppo permissivo. Chi vota a sinistra lo respingerà perché disumano. I centristi, che vorrebbero una sintesi tra controllo e solidarietà, non la troveranno. Il piano è dunque costretto a fallire.
Dell’inefficacia del progetto per i Britannici si è preoccupato anche Matthew Rycroft, Permanent Secretary dell’Home Office ed ex rappresentante dello UK alle Nazioni Unite. Il giorno prima della firma dell’accordo, Rycroft ha inviato una lettera al ministro dell’Interno Patel per esprimerle i suoi dubbi sulla validità economica del ricollocamento dei migranti. Riteneva inoltre che la decisione non sarebbe stata un deterrente per nuovi sbarchi illegali.
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La più grave obiezione al patto Londra-Kigali è però di carattere giuridico.
Molti parlamentari e attivisti britannici e molte organizzazioni nazionali e internazionali hanno puntualizzato che il ricollocamento dei migranti in Ruanda rappresenta una violazione dei trattati internazionali sulla protezione dei rifugiati e sui diritti umani che il Regno Unito ha firmato in un passato più o meno recente.
E, nel 2021, Londra ha denunciato il Ruanda alle Nazioni Unite per le sue ripetute violazioni di diritti umani. Il governo britannico aveva infatti condotto ricerche indipendenti su accuse di condanne extragiudiziarie, morti in custodia delle forze dell’ordine, torture e forzate sparizioni in territorio ruandese. Aveva garantito anche l’asilo a quattro migranti ruandesi.
Nel 2018, almeno venti migranti sono stati uccisi dalle forze di polizia di Kigali mentre protestavano contro le loro condizioni: avevano fame e il loro cibo era stato razionato troppo. E sempre in quell’anno, Israele ha concluso un accordo simile a quello britannico, sempre con Kigali. I migranti ricollocati finirono nelle mani di trafficanti, da cui furono sottoposti a torture, stupri, schiavitù e omicidi.
Commentando il piano di ricollocamento di Johnson, il direttore di Human Rights Watch per l’Africa Centrale Lewi Midge ha riassunto così il grado di sicurezza umanitaria del Ruanda: «I rifugiati sono stati abusati in Ruanda e il governo ha a volte rapito i rifugiati ruandesi all’estero per riportarli in patria, processarli e maltrattarli».
Nonostante le critiche e le opposizioni, il Governo di Boris Johnson è determinato a portare avanti la sua politica. Che è ufficialmente definito una partnership sull’immigrazione e lo sviluppo economico.
La Segretaria di Stato Priti Patel ha risposto alla lettera di Rycroft, e ai commenti simili, prendendosi la piena responsabilità dell’accordo con Kigali. Lo ha lodato, definendolo un esperimento votato al successo unico al mondo: il primo piano davvero efficace contro l’immigrazione illegale. Ha sottolineato, in un velato riferimento alle autorità religiose, che è «sorprendente che quelle istituzioni che criticano i piani falliscano nell’offrire soluzioni alternative». Ha detto poi che lasciare inalterata la situazione non è più «un’opzione per una nazione umanitaria».
Sui temi umanitari e morali punta anche la difesa del premier Boris Johnson. Precisando che si tratta di un atto reso possibile dalle libertà della Brexit, ha definito quello con Kigali un patto nato da un impulso umanitario della nazione britannica, moralmente necessario per combattere il traffico di migranti.
«I migranti economici che si approfittano del sistema di richiesta d’asilo non resteranno nel Regno Unito. Coloro che si trovano davvero in uno stato di bisogno saranno assisiti: sarà garantito loro anche l’accesso a servizi legali al loro arrivo in Ruanda. Avranno l’opportunità di costruire una nuova vita in un Paese dinamico, supportati da fondi britannici», così il Primo Ministro riassume le sue decisioni.
Aggiunge che il Ruanda è conosciuto a livello mondiale come un Paese capace di accogliere e integrare i migranti. Che l’esercito di avvocati votati a ostacolare la sua amministrazione più che ai diritti umani dovranno darsi pace: il ricollocamento dei migranti avverrà, funzionerà e sarà vantaggioso per tutti.
Anche il governo ruandese ha giocato la carta dell’ospitalità. Yolande Makolo ha motivato le ragioni di Kigali per accettare l’accordo con Londra innanzitutto con la tradizionale accoglienza del Paese e con la storia di migranti dei ruandesi. Sulla questione di un possibile ritorno nel Regno Unito di quei migranti a cui è stato garantito lo status di rifugiato, Makolo afferma che non avranno opportunità di scelta: resteranno in Ruanda. E non c’è alcuna violazione della giurisdizione internazionale: la legge in merito stabilisce che i migranti possano chiedere asilo ovunque, ma non indica né obbliga a un dove debbano stare.
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L’accordo tra il Regno Unito e il Ruanda per il ricollocamento dei migranti non è una prima volta.
È una strategia politica testata da numerosi attori politici, comprese Unione Europea e Italia. E ha un proprio nome: si chiama esternalizzazione dei confini.
In un contesto migratorio, significa che un’entità politica X delega un’entità politica Y a fermare e gestire i migranti che sono diretti verso il suo territorio. Con questa mossa, è come se X estendesse i propri confini oltre il suo territorio ufficiale e ne appaltasse la sicurezza, l’impenetrabilità a qualcuno che si occupa di aiutare in questo compito. Infatti, Y riceve aiuti (spesso finanziari) da X. X è generalmente un’entità ricca mentre Y è quasi sempre un Paese d’origine o di transito di chi si sposta verso una vita migliore.
Spesso, all’esternalizzazione dei confini si accompagna la loro militarizzazione. X organizza una polizia ad hoc oppure dà nuovi compiti alle forze dell’ordine esistenti per bloccare i migranti che riescono ad arrivare ai suoi confini fisici. I militari di Y possono anche ricevere soldi e/o addestramento per fermare meglio i migranti.
Patel ha annunciato che la Royal Navy assumerà il dovere di bloccare le piccole navi di migranti che attraversano La Manica per rispedirle in Francia. Frontex, l’Agenzia dell’UE, ha all’attivo diverse missioni di pattugliamento del Mediterraneo durante le quali ha respinto barconi di migranti verso le coste africane. L’Italia ha invece all’attivo un memorandum con la Libia nel quale sta scritto che Roma si impegna ad addestrare e fornire mezzi alla guardia costiera libica. Quella che rinchiude i migranti nelle prigioni lager.
Nonostante queste misure, gli arrivi dal mare non si sono mai fermati.
È lampante, quindi, che la politica di esternalizzazione non produce effetti benefici per nessuno. È anzi parte del problema migratorio. Spinge i migranti a solcare rotte meno conosciute e più pericolose per evitare i meccanismi di blocco che sono stati pensati contro di loro. Aumenta i traffici di esseri umani, nutriti dagli accordi e dai soldi con i ricchi, e la sofferenza di chi si sposta e delle loro famiglie. Allontana la questione migrazione dalle consapevolezze occidentali, facilitando gli illeciti attorno alla sua gestione. Si tratta quindi di una strategia insostenibile e criminale da un punto di vista umanitario, legale, economico, sociale.
Il piano di ricollocamento dei migranti da Londra a Kigali è già naufragato.
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