Non sono nemmeno le tre del pomeriggio, ma Piazza San Giovanni è già piena. A Roma il Concertone del Primo Maggio non si specchia nel pubblico da un paio d’anni e, lungo il percorso laterale verso l’area stampa, dietro il palco, i “sarà come prima?” e i “sappiamo ancora come si fa?” cadono uno a uno mentre la piazza improvvisa cori, impaziente di iniziare. O di ricominciare. La parola d’ordine, il mantra di questa Festa dei Lavoratori. Che combacia con la caduta dell’obbligo di indossare le mascherine. Con il sessantaseiesimo giorno dell’invasione russa in Ucraina.
Sullo schermo sul retro appare Ambra Angiolini, ormai il volto del Primo Maggio, in un maglione a strisce gialle e blu: significa che sul palco lo spettacolo sta per iniziare. Solo il giorno prima, l’assenza della presentatrice dalla conferenza stampa di presentazione del Concertone aveva sollevato qualche timore. Scopertasi positiva al Covid pochi giorni prima, si era augurata il lascia passare di un tampone negativo. «Sarebbe il colmo se, dopo due anni senza pubblico, quest’anno non ci fossi io», aveva dichiarato quando Massimo Bonelli, direttore artistico, l’aveva chiamata su FaceTime davanti alla stampa. E difatti eccola, guarita e tamponata, a parlare con il pubblico, a mettere bene in chiaro per cosa siamo qui oggi, a partire dai colori sul suo maglione. «Che ne so cosa sono io. So solo che sto qua. E che di questa guerra siamo tutti responsabili, perciò dobbiamo cambiare le cose. Questa piazza ha bisogno di pace e quindi ha bisogno di musica. Di rispetto per la vita, per la dignità. Di sicurezza sul lavoro». D’altronde, lo slogan dell’evento è proprio “Al Lavoro per la pace”. «Lo trovo perfetto», ci ha detto Bugo, negli insoliti panni di presentatore. «Lavoro e Pace sono due termini che possono sembrare un po’ distanti, perché il lavoro implica la fatica, il sacrificio, no? Ma insieme, secondo me, sono una cosa molto bella».
Molto bella, tutti d’accordo. E a maggior ragione vale la pena scambiare due battute con i primi artisti a esibirsi, i Go_A, il gruppo formatosi a Kiev che l’anno scorso ha rappresentato l’Ucraina all’Eurovision. Un’esibizione dall’alto valore simbolico, che però ha perso l’occasione di farci ascoltare l’unico no alla guerra pronunciato senza leggerezza, da chi sa che la guerra ce l’ha a casa. Vengono assaliti al loro arrivo in area stampa, e con la dignità dell’assalito che resiste ringraziano per il supporto ricevuto nelle loro tenute nere. «Tutti cantavano con noi ed è stato bellissimo. Siamo felici che le persone ci capiscano. Ieri due missili hanno distrutto il centro di Kiev. Le persone muoiono, i bambini muoiono. È molto dura per noi parlarne, ma dobbiamo farlo. Perché è tutto ciò che possiamo fare». Il messaggio che vogliono lanciare a Putin? Semplice: «Pace».
Il fermento che si respira sul retro è così diverso dal clima dell’anno scorso, quando alla stampa erano stati concessi pochi posti in una cavea vuota, a patto di una mascherina e un tampone negativo. Si credeva che quello fosse l’inizio di una nuova era dei concerti post-Covid. L’inizio dell’era nuova, però, non vi era affatto. Forse solo oggi lo possiamo intravedere. Nel backstage del Primo Maggio 2022, giornalisti, fotografi, cameramen e gli artisti stessi si muovono liberamente da una parte all’altra dell’area come fosse di nuovo loro diritto esserci, sempre e comunque, in una sorta di evento alternativo.
Valerio Lundini fa più volte incursione per sedersi alla tastiera davanti al suo gruppo, i Vazzanikki, e inscenare un live esclusivo in onda solo per Rai Radio 2 e RaiPlay. Non senza una certa commozione. D’altronde, di lì a poco avrebbe suonato sul palco un pezzo che avrebbe salvato l’umanità dalla minaccia di Putin. La canzone si chiama “La guerra è brutta” e contiene versi come «non servono le armi o la politica perché più di qualunque proiettile è potente la nostra retorica» e «non servono i bunker visto che l’unica forma di ogni salvezza è sempre e soltanto la musica». Una finta telefonata di Putin, con tanto di interprete, ha interrotto l’esibizione per annunciare di aver deciso di concludere la guerra proprio dopo aver ascoltato la canzone. È lo stile di Lundini: entra in televisione solo per spaccarla, per decostruirla dall’interno, si immette nel flusso della retorica tanto pacifista quanto generica del Concertone solo per prendersene gioco.
Gli artisti più giovani, intanto, si prestano al gioco di domande e rincorse post-esibizione. La loro, di contro, non è retorica, e non solo per una questione anagrafica. Cantano di voler essere felici, di accettare il proprio corpo, di avere il cuore spezzato, di spezzare cuori. Eppure c’è una lucida consapevolezza che buca la loro bolla, facendoli gocciolare sul contesto. Se la pandemia, il cambiamento climatico, la guerra e l’apocalittica sensazione di essere giovane in tempi sbagliati hanno tolto loro tanto, non significa che abbiano paura di tornare alla normalità. Ammesso e non concesso che torneremo alla vecchia normalità e non ne costruiremo un’altra nuova, su misura. «Auguriamo alle nuove generazioni di poter saltare sotto a un palco», ci dicono i rovere (sì, tutto in minuscolo). E alzano gli occhi al cielo ed esclamano: «E che cavolo, sì! Adesso non ce lo potete più togliere. Ne abbiamo proprio bisogno». Ed è possibile tornare come eravamo prima? «Anche di più. Quello che abbiamo vissuto ti cambia per sempre. Però col tempo diventa consapevolezza. È per questo che ti godi ancora di più momenti così».
«Mai tornare indietro, sbagliatissimo». Ne è convinta Hu, la ventottenne cantautrice che a febbraio è passata per Sanremo in coppia con l’artista Higsnob. «Non si torna mai indietro, si evolve sempre. Quello che succede oggi è la scia di una nuova evoluzione».
Per i Coma_Cose «la musica può fare da collante sociale, perché da una parte c’è la leggerezza, che è importante, e dall’altra parte anche la speranza. L’arte in generale è sempre stata questo, testimone della contemporaneità, ma anche ispirazione per migliorarsi. E speriamo che anche in questo periodo l’arte riesca a fare quello che è il suo compito».
La Rappresentante di Lista apre gli artisti della sera e di lì in poi, una sorta di coprifuoco – deja vù – per l’area stampa. Arrivano i Big. Marco Mengoni (è la prima volta al Primo Maggio), Carmen Consoli, Tommaso Paradiso, Rkomi, Gazzelle. Si salta in piedi. Si balla. Addirittura col richiamo alla lira, Max Pezzali fa cantare a tutti “Con un deca”. Ma dopo l’esibizione, silenzio stampa. Una piccola fermata al box di Rai Radio 2, e gli artisti scompaiono nel backstage. Coez concede di firmare un disco, ma solo in cambio di una sigaretta.
Chiusa la parentesi da conduttore, Bugo, nella sua giacca di jeans a coprire la maglia degli Oasis che ha indossato per tutto il pomeriggio e che, per i colori, è stata scambiata per uno spiacevole richiamo alla Russia, si fa avvicinare dicendosi per niente stupito dalla grande partecipazione riscontrata. «I giovani non possono dimenticare l’istinto naturale di scherzare, di stare insieme. Ieri non c’erano ancora i ragazzi, però già me li immaginavo. E oggi alle tre e mezza, quando abbiamo iniziato, c’era già mezza piazza piena. Gli altri anni a volte erano pure di meno».
È forse con un po’ di rammarico che pensiamo al mancato stupore di Bugo. Perché una volta usciti a vedere il Concertone reale, quello della piazza piena, un po’ si vorrebbe che tutti provassero la meraviglia di constatare che forse sappiamo ancora come si fa, a vivere come prima. Non perché la musica e qualche slogan ci salveranno. Putin sta ancora bombardando l’Ucraina. E i morti sul lavoro in Italia dall’inizio dell’anno sono già duecento. Tra un anno ci diremo le stesse cose. Ma se questo dovesse essere il nuovo inizio della musica dal vivo in Italia, è una buona speranza.
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