Qualche settimana fa, su theWise Magazine abbiamo parlato del greenwashing, l’ecologismo di facciata che caratterizza molte campagne pubblicitarie degli ultimi anni. Proprio in questi giorni, i più attenti nel mondo della moda ne avranno notato una nuova: evoluSHEIN. Si tratta del lancio di una nuova collezione sostenibile promossa dal colosso della moda Shein e partita il 28 aprile scorso. Ma un marchio come Shein, ossia un brand di fast fashion, può davvero essere sostenibile?
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Quando si parla di abbigliamento ci sono alcune marche che vengono in mente prima di altre. Zara, Bershka, Pull & Bear (tutte parte del gruppo Inditex), H&M, Primark e, appunto, Shein sono solo alcune delle grandi griffe a cui ci affidiamo per comprare i nostri vestiti. Questi, come altri, sono marchi di abbigliamento fast fashion.
Il fast fashion è un metodo di produzione di abbigliamento che mira a realizzare capi di moda a prezzi ridotti. È una strategia di produzione rapida, a basso prezzo – e qualità – che permette ai marchi di aumentare la loro offerta nei negozi massimizzando il profitto. I bassi costi, e il conseguente basso prezzo finale del prodotto, rendono questo metodo di produzione il più diffuso nell’industria della moda.
Secondo alcuni, il fast fashion è un processo di democraticizzazione della moda. Oltre ai costi accessibili, infatti, la produzione è veloce: è stato stimato che servono meno di sei settimane per passare da uno schizzo su carta alla vendita del prodotto, in serie, nei negozi. Inoltre, è proprio grazie a questo metodo di produzione che si è potuta ampliare l’offerta disponibile negli store, che sono passati da avere due collezioni principali, primavera-estate e autunno-inverno, ad avere 52 micro-collezioni, con qualche capo nuovo ogni settimana. In quest’ottica, la moda è a disposizione di tutti, accessibile per costi e taglie e sempre in linea con le ultime tendenze.
D’altra parte, per quanto possa essere allettante per i consumatori, una produzione così rapida ed estesa ha parecchi lati negativi. Per affrontare il tema del fast fashion sono necessarie diverse chiavi di lettura ed è essenziale toccare diversi aspetti. Ma le conseguenze del fast fashion sono devastanti e a risentirne sono soprattutto i lavoratori e l’ambiente.
Inutile girarci intorno, l’industria della moda è la seconda più inquinante del mondo, dopo quella petrolifera. È stato stimato che il 20 per cento dell’inquinamento delle acque industriali nel mondo è causato dalla lavorazione dei tessuti. Per produrre un paio di jeans si utilizza la stessa quantità di acqua che una persona consuma in 3 anni, circa 7mila litri. Uno dei tessuti più utilizzati, il poliestere, deriva dal petrolio ed è la principale causa del problema delle microplastiche nel mare. L’industria della moda emana più gas serra di tutti gli spostamenti aerei e navali del mondo. I dati, spesso non resi pubblici, sono significativi.
Inoltre, non possiamo non menzionare il deserto di Atacama, uno dei più aridi del mondo, situato in Cile. È proprio tra le dune di questo deserto che si è creato una sorta di cimitero dell’abbigliamento, che nessuno ha il compito di pulire e dove nessuno paga tasse per la sua bonifica.
I vestiti, prodotti in Bangladesh, Cina o Pakistan vengono dapprima portati in America e in Europa, dove vengono lanciate le collezioni di moda principali; in seguito, le rimanenze – circa 59 mila tonnellate secondo Al Jazeera – arrivano in Cile per essere vendute in Sud America. Una minima parte viene venduta, la rimanente finisce proprio nel deserto di Atacama. Lì rimarrà fino alla fine del processo di biodegradazione che, nel caso dei vestiti, dura centinaia di anni. Essendo i capi trattati con coloranti artificiali e tossici, poi, l’impatto ambientale è ancora maggiore.
Ecco allora che collegare le parole ecofriendly, organico, naturale e verde a capi prodotti seguendo questi schemi diventa una forma di greenwashing. E anche una forma di ipocrisia.
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Nel il caso di evoluShein, il comunicato stampa annuncia una nuova collezione inclusiva e consapevole, prodotta – in parte – con poliestere riciclato. Questo materiale si ricava da bottiglie di plastica, che vengono lavate a lungo, spezzettate, fuse e filate per diventare fibre di poliestere. È un materiale non più riciclabile e che rilascia microplastiche quando lavato. Complice anche la derivazione dal petrolio, il poliestere riciclato, di per sé, non porta grandi vantaggi. Soprattutto, è poco utile a promuovere l’economia circolare su cui dovrebbe basarsi questa collezione di abbigliamento. Infatti, se il presupposto della collezione è promuovere la sostenibilità e l’economia circolare, produrre capi che avranno una durata media di qualche settimana non più riciclabili non è di certo il modo giusto di procedere.
Per di più, Shein è una delle aziende che rilascia più prodotti in assoluto in tutto il mondo. Si stima che Shein rilasci dai 6 mila ai 9 mila prodotti al giorno. Non di certo un numero che possa essere associato a una produzione sostenibile, che rispetti non solo l’ambiente, ma anche i lavoratori. In quest’ottica, la collezione “sostenibile” rappresenterebbe meno dell’1 per cento dei prodotti. Considerando i prezzi irrisori di questo colosso della moda e la continua spinta all’acquisto data dai costanti sconti, è chiaro che per tale brand la sostenibilità altro non è che un trend da seguire e da sfruttare per vendere di più.
Ecco, allora, che si torna al principio: il greenwashing.
Il greenwashing ha tante forme e sfumature. Anzitutto, per capire l’impatto ambientale dei capi che acquistiamo è bene controllare l’etichetta. I capi più facilmente riciclabili sono quelli prodotti in un unico materiale. I capi da evitare sono quelli prodotti dai derivati dal petrolio, come il poliestere, ma anche l’acrilico o il polietilene. Per scoprire l’impatto dei singoli brand di abbigliamento consigliamo l’app Good On You, che tiene traccia non solo dell’impatto ambientale, ma anche della supply chain, della sicurezza dei lavoratori e degli animali.
Quindi può il fast fashion essere sostenibile ed essere pubblicizzato come tale? In breve, no; una produzione sostenibile non può andare di pari passo con un sistema come quello del fast fashion.
Ma perché l’industria tessile non si impegna per essere, quantomeno, più sostenibile? Il voler produrre tanto a prezzi bassi per poi vendere capi di breve durata non è sostenibile per principio. Essere sostenibili farebbe aumentare i costi di produzione. Costi che il fast fashion non è disposto a sostenere. Come riportato nel 2017 dal WWF nel report Changing Fashion, su 12 grandi aziende coinvolte più della metà non ha adottato alcun progetto sostenibile nonostante le iniziative e le campagne pubblicitarie green messe in atto. Un’ulteriore conferma di come l’attenzione per l’ambiente sia sì presente nell’industria della moda, ma solo di facciata.
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