Nelle scorse puntate: C’era una volta lo storyteller. John Berger
C’era una volta un partigiano. Tornato dai monti, scelse di raccontare ciò che aveva visto, ma ancora non sapeva come farlo. Provò più e più volte, scrivendo e poi cancellando, studiando e riscrivendo. Ancora e ancora.
Poi, un giorno, trovò la formula perfetta: c’era una volta. Per Italo Calvino non c’era forma migliore della favola per restituire al mondo le vicissitudini della Storia.
Calvino non è stato solo un testimone della Resistenza. Attraverso il suo stile pulito, semplice e raffinato ha saputo narrare tanto l’umanità dei momenti più alti e lirici quanto quella degli istinti più bassi. Non si è limitato a riportare le esperienze da lui vissute in prima persona, ma le ha sublimate come memoria collettiva della società.
Con un esame attento, continuo e concentrato della lingua ha trovato il mezzo ideale per raccontare l’uomo all’umanità, lasciando trasparire quella necessità mai esaurita di trasformare la realtà in una forma di fiaba.
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Come per molti altri scrittori a lui coevi, anche per Calvino l’attività partigiana diventa il catalizzatore per trasformare l’esperienza in racconto. Nel 1944 entra in contatto con il Partito Comunista italiano (Pci) e subito prende parte a diverse azioni. Nello stesso anno entrerà nella Seconda Divisione di assalto Garibaldi e qui resterà colpito dal coraggio dei propri compagni.
In quel momento nasce in lui il mito del partigiano: un individuo con «un’attitudine a superare i pericoli e le difficoltà di slancio, un misto di fierezza guerriera e autoironia sulla stessa propria fierezza guerriera», dunque non un eroe fatto solo di divina potenza, piuttosto «un po’ gradasso e truculento ma sempre animato da generosità, ansioso di far propria ogni causa generosa». [Calvino in risposta all’inchiesta La generazione degli anni difficili, Laterza, Bari 1962, ndr].
La guerra partigiana per lo scrittore dura solo un anno. Eppure è un momento denso, in cui resterà spesso sospeso tra la vita e la morte, tra il desiderio della fuga e la paura del pericolo imminente. Già nel 1945 sentirà il bisogno di gettare sul foglio le esperienze cariche di emozioni, di difficoltà e di stimoli. Sente l’urgenza di raccontare. Così nascono le prime narrazioni, i primi esperimenti.
Tuttavia, l’autore non è soddisfatto: vuole spingersi oltre la cronaca, oltre una narrazione che rischia di farsi mito con il tempo. Italo Calvino troverà la fusione tra Storia e favola dopo una lunga ricerca di stile. Il percorso però è già visibile nella sua prima raccolta di racconti: Ultimo viene il corvo.
La raccolta, pubblicata per la prima volta nel 1949 da Einaudi, nella collana I coralli, racchiude trenta racconti scritti tra il ’45 e il ’49. Si tratta di un libro rivisto più volte dallo stesso autore, che in alcune edizioni aggiunge e in altre toglie. Inoltre, alcuni di questi confluiscono nella più ampia selezione de I racconti del 1958.
Parallelo a questa prima produzione è il Il sentiero dei nidi di ragno, uscito nel 1947. È possibile che il romanzo di impronta storica abbia trovato la sua dimensione favolistica proprio grazie ai racconti che l’autore stava scrivendo nel mentre.
In questo senso, la raccolta diventa un esercizio di stile, la palestra di Italo Calvino per congiungere la Storia della resistenza partigiana con la favola a lui tanto cara. Emerge il motivo per cui i primi tre racconti in ordine cronologico non siano presenti nelle successive edizioni del 1969 e del 1976. Angoscia in caserma, La stessa cosa del sangue e Attesa della morte in un albergo sono tutti scritti del 1945, i primi dopo la guerra, «tentativi di dar forma narrativa alle esperienze recenti, dove l’evocazione è ancora troppo legata a un appello emotivo», come afferma l’autore nella nota di apertura delle edizioni successive alla prima.
E in effetti l’emozione è preponderante in questo trittico. Alla cronaca puntuale e ai dettagli precisi si accompagna un’intensa emotività. L’occhio del narratore combacia con l’iride di un Calvino che ancora sente la battaglia sulla pelle. C’è il partigiano, grossolano ma determinato, c’è il ragazzo spavaldo che vuole proteggere i suoi cari e al contempo sentirsi libero. I protagonisti sono combattenti che vogliono restare uniti e salvarsi la pelle. Sono umani a tutto tondo.
Se da un lato è vero che in queste prime produzioni l’esperienza partigiana ha ancora una forte carica emotiva e sentimentale, è altrettanto vero che Calvino ha già aperto la porta a una nuova forma narrativa. È l’esperimento della trasfigurazione, della trasformazione della realtà in entità immaginifica.
Succede per esempio in Attesa della morte in un albergo. Due soldati aspettano di conoscere il loro destino, se saranno liberi grazie a un aiuto esterno o se moriranno per mano di un traditore. Nel momento decisivo della narrazione, il protagonista, Diego, ha una visione del compagno, Michele. D’un tratto quest’uomo minuto e calvo diventa gigantesco, così grande da soverchiare prima i tedeschi, poi i ricchi, infine una società intera. Sotto l’esperienza personale e la carica emotiva, Calvino esplora la dimensione del sogno, dell’immaginazione che appartiene al mondo della fiaba.
Tuttavia, questa narrazione apre poi le porte a racconti più distaccati dalla guerra, che mostrano l’evoluzione stilistica dell’autore. L’esercizio dà i suoi frutti e il narratore trova il suo modo di fare storytelling. Il picco dello spirito favolistico arriva con Il bosco degli animali (1948) e Uno dei tre è ancora vivo (1949). Questi due fanno pensare più alla novella che al racconto. Viene meno l’impianto emotivo che caratterizzava i primi lavori e si insinuano lo spirito dell’avventura e l’ilarità della disavventura.
Le vicende dei protagonisti così raggiungono il livello del romanzo picaresco (romanzo in cui il personaggio narra in prima persona le proprie vicende di vita, raccontando tutte le sue peripezie). Nel primo il protagonista, goffo e «schiappino», si destreggia in un bosco di animali da cortile e finisce per diventare un eroe della Resistenza. Nel secondo la scena dei tre uomini nudi condannati a morire in una cavità naturale viene alleggerita nelle descrizioni, mentre l’azione conduce a un finale inaspettato.
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Il nuovo stile, più composito e meno epico, è sorretto da un vocabolario che non ha nulla a che fare con la narrazione di cronaca. Il bosco degli animali è un chiaro esempio di come la Storia approda alla favola con Italo Calvino. Termini come «fucilaccio, trotterellando, coccodè», espressioni come «ohimè di me!, gambe lunghe lunghe, diventò tutto rosso» non appartengono a un impianto narrativo epico o aulico. Sembra invece che Calvino stia raccontando una storia di paese e questa tendenza è confermata anche dall’andamento del racconto, dagli intercalari, dalla presenza inaspettata di una boccia di pesci rossi o di pappagalli nel bosco.
L’autore ligure esplorerà più volte in seguito la dimensione del racconto. E la pubblicazione delle Fiabe italiane, selezionate e trascritte dal dialetto, ribadisce ancora una volta il legame con questa forma di narrazione.
Raccolte come Le Cosmicomiche, Il Castello dei destini incrociati, ma anche Le città invisibili rimandano spesso a una dimensione talvolta picaresca, talvolta favolistica. Il racconto tratto dalla realtà è pervaso dall’immaginazione dell’autore e dei suoi personaggi. L’esattezza si fonde con la creatività.
Così Italo Calvino riesce a trovare la favola nella realtà e la trasmette tutta ai suoi racconti. Perché, come dice nelle Fiabe Italiane, «le fiabe sono vere, sono, prese tutte insieme, nella loro sempre ripetuta e sempre varia casistica di vicende umane, una spiegazione generale della vita, nata in tempi remoti e serbata nel lento ruminio delle coscienze contadine fino a noi».
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