Asmer, l’associazione che porta la Storia nelle famiglie e sul territorio

«Attraverso le piccole storie di famiglia si creano le grandi storie delle nazioni». Parola di Giulio Verrecchia, presidente dell’Asmer, Associazione Studi Militari Emilia Romagna, realtà che si occupa della valorizzazione del patrimonio storico e culturale legato alla storia militare del Novecento sul territorio emiliano-romagnolo.

Cos’è Asmer?

«L’Asmer è un’associazione che si occupa della divulgazione e della salvaguardia della memoria nell’ambito della storia militare. Il nostro principale interesse è il Novecento, in particolare Prima e Seconda Guerra Mondiale. Andiamo a recuperare tutte quelle storie, piccole, medie o grandi che siano, che purtroppo vengono dimenticate dalla Storia con la “S” maiuscola. È una cosa fisiologica: noi proviamo però a riaccendere i riflettori sulle vicende del territorio».

Quali sono i vostri progetti?

«Ne abbiamo diversi. A Modena abbiamo fondato nel 2019 un centro documentale, che ospita circa milleseicento volumi. Sono consultabili sia gratuitamente dai soci sia dagli esterni attraverso una piccola sovvenzione. Collaboriamo poi talvolta con i Comuni per tutti gli eventi a carattere divulgativo, come conferenze e incontri.

Con il Comune di Modena abbiamo in progetto il restauro del cimitero militare della Grande Guerra all’interno del cimitero monumentale, città in cui siamo anche riusciti a salvare dalla demolizione e restaurare il monumento ai caduti del “36° Reggimento Fanteria” . Abbiamo poi in cantiere una lapide commemorativa in onore di soldati americani caduti in prossimità di Nonantola, sempre in provincia di Modena.

Abbiamo poi riportato in auge sul nostro territorio l’Unione Nazionale Italiana Reduci di Russia, in ricordo degli italiani che combatterono e morirono durante la campagna di Russia tra il 1941 e il 1943».

Chi sono i vostri soci?

«Il giovane attira il giovane. Il nucleo costituente di Asmer è composto da me e altri quattro ragazzi che all’epoca della fondazione avevano tra i 23 e i 26 anni. Subito dopo la fondazione abbiamo organizzato gli eventi di presentazione: vedere giovani partecipare a queste ricerche ha visto subentrare altri giovani.

Molti erano interessati alla loro storia di famiglia e non avendo le competenze per ricostruirla si sono rivolti a noi. Si sono trovati bene e si sono associati! Oggi lavorano attivamente alle ricerche. L’associazione è giovane e dinamica. Soprattutto, c’è spazio per tutti».

Avete anche un museo?

«Sì. Il museo di Asmer è una struttura che si è formata nel tempo. Alcuni associati hanno donato o prestato oggetti che sono andati a comporre una quarantina di manichini perfettamente equipaggiati come i vari eserciti che hanno combattuto in Europa nella Seconda Guerra Mondiale.

Nei centocinquanta metri quadrati di esposizione trovano posto, tra le altre, divise italiane, britanniche, americane e tedesche. Abbiamo cercato di inserire tutti gli attori della campagna d’Italia: nel nostro Paese hanno combattuto più di cinquanta etnie, tra cui nippoamericani, afroamericani, brasiliani e le truppe del Nord Africa».

Qual è il valore della storia militare riportata alla dimensione della storia locale?

«Credo che la storia militare sia storia di uomini e storia di uomini vuol dire storia locale. Ogni comunità ha dato uomini che hanno servito il proprio Paese, di conseguenza ogni territorio ha qualcosa di particolare e unico da raccontare.

Questi avvenimenti se rimanessero nel “fiume” della grande storia verrebbero dimenticati, mentre nel nostro “torrente” possono trovare lo spazio che meritano. Sono racconti che possono aprire logiche e ragionamenti che arricchiscono il dibattito e la complessità».

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Cosa ne pensa del tema, oggi ricorrente, dell’avversione indiscriminata verso le divise?

«Le cosiddette “mele marce” esistono, va detto. Esiste però anche un codice penale che le punisce. In merito all’avversione indiscriminata alle divise, questa è una tendenza mediatica che nasce dalla fine degli anni Sessanta, post 1968, quando tutto quello cha sinonimo di ordine era deprecabile.

Questa vulgata antimilitarista è proseguita negli anni successivi, anche tramite l’azione di storici italiani e internazionali. Tutt’oggi penso si voglia attribuire agli uomini in divisa le colpe del passato. Dentro la divisa però ci sono uomini che possono sbagliare e, se lo fanno, devono pagare. Sbaglia l’uomo e paga l’uomo, non le divise, che sono sempre le prime a intervenire in caso di calamità o problematiche.

In questa avversione vedo anche un problema per il futuro: se non c’è rispetto per l’Istituzione, l’Istituzione stessa decade. Su cosa potremo contare?».

Quale consiglio si sente di dare a un giovane che volesse avvicinarsi al mondo della storia militare?

«Come dicevo prima, la storia non è una serie simbolica di date e avvenimenti. Bisogna partire dalla propria casa. Ognuno di noi ha un famigliare che, come civile o militare, ha partecipato agli aventi bellici del Novecento. Una medaglia, una fotografia o un attestato ritrovato in un cassetto possono suscitare curiosità. Io stesso ho trovato le fondamenta di questa passione attraverso il racconto dei miei nonni. Attraverso le piccole storie di famiglia si creano le grandi storie delle nazioni».

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