Kendrick Lamar: Mr. Morale o Big Stepper?

Il 13 maggio scorso è uscito Mr. Morale & The Big Steppers, il nuovo album di Kendrick Lamar. Il disco del ritorno del rapper di Compton (che si esibirà a Milano il prossimo 23 giugno) è un doppio LP coraggioso e personale, a tratti intimo. Un disco che aggiunge un nuovo capitolo al grande romanzo dell’America contemporanea che Lamar ha saputo scrivere nel corso degli ultimi dieci anni raccontando dualismi, contraddizioni e complessità dell’identità afroamericana del Ventunesimo secolo.

L’album arriva a cinque anni di distanza dal precedente DAMN., il disco che era valso all’artista californiano il Premio Pulitzer per la musica 2018. Una pausa dai riflettori lunga ma densa, i cui motivi sono il punto di partenza ideale per provare a capire il nuovo lavoro del rapper più influente e acclamato della sua generazione.

Kendrick Lamar alla cerimonia del Premio Pulitzer 2018. Foto: Wikimedia Commons.

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1855 giorni dopo

«I’ve been goin’ through somethin’/One-thousand eight-hundred and fifty-five days». Le prime parole pronunciate da Kendrick Lamar nella traccia di apertura dell’album, United In Grief, sono queste. La durata della pausa tra questo disco e il precedente viene scandita con esattezza, come a volerne sottolineare la lunghezza, e, soprattutto, l’intensità: 1855 giorni in cui il rapper di Compton ha passato un periodo non facile.

Condensare i cambiamenti di portata storica che l’America e il mondo intero hanno attraversato negli ultimi anni, e, ancor di più, l’impatto di questi sul proprio vissuto personale non è semplice: dalla pandemia alla guerra in Ucraina, dalle più grandi proteste razziali del secolo al cambiamento climatico. Kendrick Lamar ci riesce in una sola frase, descrivendo con efficacia quello che è anche il tema dell’intero album: il trauma, e come guarirne.

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Trauma che, per il rapper di Compton, non si limita all’aver vissuto gli avvenimenti storici appena citati, ma che affonda le proprie radici nell’esperienza afroamericana contemporanea e in quella di un ragazzo nato e cresciuto in uno dei luoghi più difficili d’America e simbolo della blackness e divenuto negli anni uno dei più importanti leader della comunità nera degli Stati Uniti e non solo.

In Mr. Morale & The Big Steppers Kendrick Lamar affronta quindi i traumi del proprio passato (lontano e recente), raccontandoli con coraggio e legandoli a quelli di un’intera generazione. Questo, dunque, il senso di United In Grief, ma anche di tutto il disco.

Mr. Morale o Big Stepper?

Il jazz (con un tocco di elettronica e psichedelia) della traccia di apertura è introdotto da un coro dai toni quasi liturgici: «I hope you find some peace of mind in this lifetime». Lungo le diciotto tracce dell’album, infatti, quello che ha luogo è un vero e proprio percorso terapeutico, le cui sedute sono le canzoni.

Trauma e guarigione, perdita e riscoperta di sé, dannazione e redenzione sono da sempre i temi portanti della discografia di Kendrick Lamar, e Mr. Morale & The Big Steppers non fa eccezione. Già dal titolo e dalla copertina del disco il tema del dualismo è infatti ben rappresentato.

Pur non comparendo in maniera esplicita come personaggio nel corso dell’album, Mr. Morale può essere inteso come la personificazione dell’eroe buono, del salvatore (divino e non), di un colui che incarna il bene e, appunto, la morale. Big Stepper, invece, nello slang afroamericano indica qualcuno che porta a termine il proprio lavoro con tenacia ma, a volte, anche chi lo fa con metodi discutibili, come per esempio un gangster o uno spacciatore: un qualcuno che “ce l’ha fatta” ma, sembra chiedersi Lamar, a che costo?

Sembra essere questa la domanda che guida il rapper nel suo percorso di guarigione, un percorso che lo vede spogliarsi di quei panni da leader e salvatore della comunità afroamericana (e del mondo) che si è sentito cucire addosso in questi anni.

La copertina di Mr. Morale & The Big Steppers.

Ed è la copertina a rappresentare al meglio tutto questo. Nello scatto della fotografa Renell Medrano il rapper di Compton è raffigurato con in testa una corona di spine (come Gesù), in braccio una bambina (la primogenita di Lamar) e con la cintura che nasconde il calcio di una pistola: l’artista, dunque, come salvatore e gangster al tempo stesso, Messia e peccatore, Morale e Stepper. Sullo sfondo, la compagna del rapper dai tempi del liceo, Whitney Alford, con in braccio il loro secondo figlio. Alford che nell’album ricopre uno dei ruoli più importanti, una sorta di narratrice-coscienza di Lamar, forse la vera Morale del titolo.

Some peace of mind

Se nel suo album del 2012 good kid, m.A.A.d city era la voce della madre a guidare il rapper verso la salvezza dalle strade di Compton, in Mr. Morale & The Big Steppers è la voce della compagna Whitney Alford ad accompagnare Lamar nel suo percorso di guarigione.

Un percorso che, però, non porta soltanto a una guarigione individuale, bensì a una catarsi collettiva. È questo, infatti, il vero messaggio del disco. Raccontando sé stesso e la propria famiglia come mai prima d’ora (di proposito non si è voluto in questo articolo analizzare l’album canzone per canzone) Kendrick Lamar riesce nella difficile impresa di creare un legame tra il proprio vissuto e quello collettivo.

Mr. Morale & The Big Steppers non è un album perfetto, proprio come non lo è il suo autore. È un album umano, onesto, sincero, come Lamar. Il rapper di Compton, da sempre in grado di donare alle sue canzoni una profondità lirica di rado incontrata nella storia dell’hip-hop, raggiunge in questo suo ultimo disco una capacità di mostrarsi fragile e vulnerabile mai vista.

Un disco la cui forza risiede nella sua fragilità, nella sua umanità. Un disco complesso che, però, la complessità è capace di raccontarla. Il disco in cui Kendrick Lamar sceglie di togliersi la corona, ma lo fa per sé, per la sua famiglia, Compton e un’intera generazione.

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