La crisi in Ucraina ha investito l’Unione europea (Ue) di un ruolo di primaria importanza nella gestione del conflitto che si consuma proprio alle sue porte. Mai come questa volta è stata messa sotto la lente d’ingrandimento la politica estera comunitaria, che ha rivelato ancora una volta tutte le sue fragilità.
Se all’inizio era sembrato che da Bruxelles si fossero sollevati moti e risposte unitarie nella condanna all’azione russa, con i primi pacchetti di sanzioni e la volontà di sostenere militarmente l’Ucraina, oggi le fratture e le contraddizioni interne sembrano essere sotto gli occhi di tutti.
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Un caso emblematico è quello del sesto pacchetto di sanzioni lanciato il 30 maggio scorso. Arrivato dopo più di 50 giorni dall’ultimo, il suo contenuto ha generato più di qualche perplessità. La trattativa in seno al Consiglio europeo si è rivelata estenuante, data la ferma opposizione dell’Ungheria: le nuove sanzioni, infatti, prevedono un blocco quasi totale delle importazioni di petrolio dalla Russia, da cui l’Ungheria è fortemente dipendente per il proprio approvvigionamento di carburante. L’accordo si è trovato consentendo un’esenzione temporanea verso quei Paesi (come l’Ungheria appunto) che importano il greggio russo attraverso gli oleodotti e non via mare.
L’episodio non fa altro che mettere ancora una volta in risalto la fragilità della politica estera di Bruxelles, che non appena vede un solo Stato membro in disaccordo, entra in una fase di paralisi e non riesce a far fronte alle questioni più importanti sul piano internazionale. Ma perché la politica estera europea sembra essere “zoppa“?
Pesc: cosa c’è alla base della fragilità della politica estera e di sicurezza europea?
Per capire le problematiche che affliggono la politica estera europea è necessario andare a vedere la sua struttura e organizzazione all’interno dei Trattati. La Pesc (politica estera e di sicurezza comune) fu introdotta nel 1993 con il trattato di Maastricht, e fu inserita all’interno del sistema a tre pilastri dell’allora Comunità Europea come secondo pilastro.
Il trattato di Lisbona, entrato in vigore il 1° gennaio 2009, ha conferito all’Ue personalità giuridica e una struttura istituzionale per il suo servizio esterno, eliminando la struttura a pilastri introdotta dal Trattato sull’Unione europea (Tue) nel 1993. L’accordo ha creato una serie di nuovi attori della Pesc, fra cui l’alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza (carica ricoperta attualmente dallo spagnolo Josep Borrell).
La forte fragilità e frammentazione della Pesc risiede nel fatto che l’organo centrale in questo settore sia il Consiglio europeo, con competenze marginali riservate a Commissione e Parlamento. Il Consiglio europeo, infatti, ha una struttura intergovernativa, è costituito dai capi di Stato e di governo dei Paesi membri e adotta le proprie decisioni all’unanimità: una sola voce fuori dal coro è sufficiente per paralizzarne l’attività.
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In questo quadro si inerisce l’enorme difficoltà dell’Ue nell’adottare le sanzioni verso la Russia. È di questa settimana la notizia che l’Ungheria abbia posto un ulteriore veto sul sesto pacchetto di sanzioni, con la volontà di rimuovere dalla lista nera il patriarca della Chiesa ortodossa Kiril (istanza accolta dal resto dei Paesi membri).
Le difficoltà in politica estera per l’Ue non sono affatto una novità, e già nella risposta a crisi internazionali passate si erano delineate queste spaccature. Una soluzione potrebbe essere una riforma dei trattati, ma la domanda da porsi è: i Paesi membri sono pronti a rinunciare ad altre fette della propria sovranità? Allo stato attuale, essere ottimisti sembra difficile.
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