Giugno. Per alcuni è il mese più bello dell’anno, che segna la fine della scuola e l’inizio dell’estate. Per altri è un mese qualunque. A livello sociale (e politico), giugno è un mese importante, di protesta e confronto: è il mese del Pride.
Era la notte del 27 giugno 1969 quando la polizia americana entrò nel gay bar di Stonewall Inn, a New York.
Le retate non erano inusuali, anzi spesso i gestori dei bar erano avvisati dell’arrivo della polizia e si organizzavano per chiudere e riaprire, nella stessa serata, i loro locali. I tempi sono maturi per una ribellione.
Pochi anni prima, negli anni Cinquanta, il maccartismo aveva portato a una forte repressione della comunità omosessuale. Negli anni della guerra fredda gli Stati Uniti iniziarono una vera e propria caccia alle streghe, chiamata Lavender Scare, letteralmente “paura color lavanda”, riprendendo un termine che era sinonimo di omosessuale. Sono anni in cui si cerca di ripulire la nazione, dai comunisti e dagli omosessuali, ma anche da tutti coloro che si comportano in modo “particolare”.
Poi arriva il 27 giugno 1969. È l’anno dopo i moti e le proteste del Sessantotto, tempo di caos, di proteste, di guerra nel Vietnam, di rivendicazione dei diritti civili. Le minoranze reclamano la loro dignità e il movimento Lgbt+, influenzato da quello dei diritti civili dei neri, si unisce nel chiedere un cambiamento. La comunità non chiedeva di essere integrata nella società, considerata incapace di accettare le diversità, bensì chiedeva una cambiamento della società, per renderla inclusiva. Per fare in modo che la loro accettazione non fosse una mera formalità dovuta al periodo storico, ma un vero progresso sociale.
Con questi presupposti, le retate della polizia avevano assunto tutto un altro significato. Infatti nella notte di venerdì 27 giugno 1969 successe qualcosa di diverso. Talmente diverso che nel raccontare i moti di Stonewall si mischiano spesso storie e leggende.
L’incipit della storia, però, è questo: otto agenti della polizia, di cui sette in borghese e uno in uniforme, entrano nello Stonewall Inn e arrestano alcuni (o tutti, le versioni sono contrastanti) dipendenti, tutti coloro che sono nel bar senza documenti e chi indossa abiti del sesso opposto. Entrano all’una e venti di notte, molto più tardi del solito, e senza nessun preavviso. È stato l’inizio del cambiamento: stanchi della continua oppressione, degli attacchi e degli arresti, i clienti dello Stonewall Inn iniziano a rispondere.
Secondo la versione più accreditata, Sylvia Rivera, pungolata con un manganello in quanto transgender, diede inizio alla rivolta lanciando una bottiglia di vetro contro uno degli otto agenti. Una seconda versione, invece, dichiara che sia stata Stormé DeLarverie, una donna lesbica, a opporre resistenza all’arresto e a incoraggiare una reazione da parte degli altri che si trovavano all’Inn. O magari accaddero entrambi gli episodi. Comunque sia, quella notte scattò una scintilla e la folla si ribellò alla polizia che, colta alla sprovvista, si ritirò all’interno del bar.
Fu una notte di scontri e proteste. Con la polizia che picchiava coloro che erano dentro lo Stonewall Inn e la folla, fuori, che cercava di appiccare fuochi per costringere gli agenti ad uscire.
La folla aumentò, i poliziotti anche. Secondo le stime si quella notte ci furono scontri tra duemila persone e quattrocento agenti di polizia.
Le proteste continuarono anche i due giorni successivi. Una quarta e una quinta protesta si svolsero qualche giorno dopo la prima retata allo Stonewall Inn. Era la rabbia di decenni di discriminazioni e ingiustizie.
Poco dopo le proteste, nel luglio del 1969, prende vita la Gay Liberation Front, un’organizzazione che mirava non solo a rivendicare i diritti della comunità Lgbt+, ma anche a mettere in discussione la struttura familiare patriarcale, il capitalismo e il razzismo. Da allora migliaia di organizzazioni, comunità, movimenti e proteste furono organizzate in tutto il mondo.
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Oggi, i moti di Stonewall sono considerati l’inizio del movimento di liberazione della comunità Lgbt+ di tutto il mondo. Anche se una liberazione vera e propria, ancora, non c’è stata.
Il Pride è un momento importante, di orgoglio e consapevolezza, ma anche di rabbia per tutte le questioni che, a distanza di anni, ancora non sono state risolte. C’è rabbia per chi viene ancora discriminato per l’orientamento sessuale o l’identità di genere. C’è rabbia per chi, dopo essersi aperto, si è visto chiudere la porta di casa in faccia. Per chi cerca di combattere, e dopo anni cede perché non sente di avere uno spazio in questo mondo.
È anche un posto libero, per tutti. Oggi parlare di movimento Lgbt è quasi riduttivo, tanto che ormai una delle sigle più comuni è Lgbt+. In quel segno più si trova spazio per tutti. Per la comunità queer, per i pansessuali, gli intersessuali o i poliamorosi. Per coloro che si stanno ancora facendo delle domande e stanno cercando di capirsi. Ma anche per tutti coloro che non si ritrovano negli standard canonici della nostra società. Per chi vuole allearsi e supportare una protesta che chiede libertà e parità, che vuole il bene e l’accettazione di tutti.
Il Pride è un momento sociale e politico. È un momento in cui si tenta di affermare la diversità, in modo che possa essere accettata e accolta in qualsiasi forma sia. Si tratta di una riaffermazione identitaria e politica causata da una società che ci impone modi di essere e modi di fare. Ma è anche un momento felice: è rinnegare l’idea che la comunità Lgbt+ debba essere rinchiusa nella vergogna e nella sofferenza. È un’occasione di ispirazione e motivazione, dove dopo la parata si ascoltano interventi di attivisti (e non) per riflettere su cosa è stato fatto e cosa dobbiamo ancora fare. Per ricordarsi che non c’è niente di sbagliato nell’avere un’identità di genere diversa o nell’amare qualcuno del nostro stesso sesso.
Il Pride ha senso proprio perché è colorato ed eccessivo, affinché non sia più invisibile e represso. Per accogliere i colori, le diversità, le idee e le emozioni che ci sono sempre state, anche se erano nascoste.
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