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Referendum giustizia: quando il popolo se ne frega

Published by
Giacomo Stiffan

Era un fallimento annunciato, lo sapevano tutti, in primis i promotori. Non è un caso che nessuno si sia speso per promuovere i referendum sulla giustizia credendoci davvero.

Nessuno, nemmeno la Lega e nemmeno Salvini, ci ha messo davvero la faccia. Questo nonostante ne fossero i principali sostenitori, insieme al centro liberale. D’altro canto è comprensibile: a nessuno fa piacere essere associati a una sconfitta così lampante. Tanto poi paga sempre Pantalone.

Il dato più importante e quello di cui vale la pena discutere non è però se abbia vinto il sì o il no. Il punto cruciale è che si tratta del referendum con l’affluenza più bassa della storia del nostro Paese.

Questo nonostante si sia tenuto in concomitanza con la tornata elettorale delle amministrative: si è trattato di uno spreco di denaro pubblico, dell’ordine di qualche centinaio di milioni di euro (ma meno dei quattrocento di cui si sente parlare in giro).

Un dato grave quello sulla partecipazione democratica, che porta ad alcune considerazioni che lasciano l’amaro in bocca.

La questione tecnica

La prima è che affrontare tematiche così delicate, in punta di legalese e attraverso un referendum con quesiti incomprensibili rappresenta un fallimento per il Parlamento. In una democrazia sana l’assemblea dei rappresentanti dovrebbe essere in grado di legiferare su questi temi in maniera autonoma, senza dover scomodare i cittadini. Dopotutto è proprio per quello che i parlamentari sono pagati: produrre e modificare le leggi in nome degli elettori.

Anche perché tentare di risolvere questioni spinose usando un referendum porta con sé i rischi insiti nello strumento stesso. Il riferimento è ad esempio al quesito sulla custodia cautelare: dal momento che possiamo solo eliminare pezzi dalle leggi esistenti senza poter integrare nulla di nuovo, talvolta si finisce per passare da un estremo all’altro.

Se fosse passato il sì in vari casi di molestie, come ad esempio lo stalking, mancando la violenza fisica vera e propria il rischio sarebbe stato di lasciare i molestatori liberi di continuare con la loro condotta, a causa dei paletti troppo stringenti per applicare la custodia cautelare nella forma tagliuzzata dal referendum. Possiamo immaginare con facilità cosa questo significhi per le vittime, e i rischi che correrebbero.

Ciò non toglie che la giustizia vada riformata, ma con ogni probabilità questo non era lo strumento adatto.

Quel che è certo è che avere a disposizione solo il referendum abrogativo è una vulnerabilità che va risolta se vogliamo davvero aggiornare il sistema ai tempi odierni, nei quali sempre meno persone si sentono coinvolte nel processo democratico.

Il voto a distanza

La bassa affluenza è sempre dietro l’angolo. Gli elettori sono sfiduciati e spesso gli viene resa la vita molto difficile. Pensiamo alla modalità di voto: alle legislative francesi della scorsa settimana i cittadini fuorisede e i residenti all’estero hanno potuto votare con lo smartphone e per corrispondenza, senza doversi recare fisicamente ai seggi.

Leggi anche: Firma digitale e referendum, cambia la democrazia.

È un aspetto da non sottovalutare: se si vuol far interessare di nuovo le persone alla politica si deve per forza passare anche da qui, in particolar modo per quanto riguarda le nuove generazioni, abituate fin da giovanissime a essere studenti e lavoratori nomadi. Chi vive fuorisede o all’estero o si muove spesso per lavoro sa bene che votare significa mettere in preventivo disagi e costi significativi, che spesso fanno desistere. Eppure la tecnologia odierna è in grado di azzerare queste difficoltà senza problemi.

L’occasione persa

Altra triste considerazione in merito al voto di domenica scorsa è che sarebbe stata una tornata referendaria molto più seguita se, insieme ai quesiti sulla giustizia, avessimo potuto votare anche i referendum sull’eutanasia e sulla cannabis.

Leggi anche: Il referendum sull’eutanasia legale spiegato da una bioeticista.

Lo dimostra l’enorme partecipazione avuta nella raccolta firme di queste due campagne. Al di là dell’importanza delle tematiche cui ognuno può essere più o meno sensibile, si è trattato di due campagne venute dal basso, genuine, sentite, che hanno mobilitato migliaia di persone che senza alcun compenso hanno messo tempo e impegno in due atti di democrazia autentici. Vanificati, però, in punta diritto dalla Corte Costituzionale.
Un’occasione persa, ed è un gran peccato.

La crisi della democrazia

Alcuni potrebbero pensare che il risultato ridicolo in termini di affluenza al referendum della scorsa settimana sia l’esempio perfetto dell’inadeguatezza della politica italiana. Questo è vero, ma se ci fermiamo qui perdiamo di vista il quadro generale.

La catena della responsabilità non lascia scampo. Se il parlamento è inefficiente è colpa dei politici (alcuni, non tutti), ma la responsabilità ultima è di chi a quei politici assicura il posto. Cioè la società, di cui la politica è specchio.

Una larghissima fetta di elettorato vota non perché crede a un progetto politico o a un’ideale, ma in base ai propri personalissimi interessi: chi dice no all’inceneritore vicino a casa (e i rifiuti chissà dove vanno, purché non a casa mia), chi promette tasse più basse per me (e degli altri chi se ne frega), chi aumenta le sovvenzioni alla scuola privata di mio figlio (drenando risorse da quella pubblica) e così via. Per non parlare degli sfasciatori di professione, che vogliono solo vedere Roma bruciare per il solito qualunquismo populista cavalcato dal capo popolo di turno, sempre pronti a scaricare la responsabilità sui politici senza fare distinzioni, invece che su chi li ha votati. Cioè noi, non dimentichiamolo.

Stiamo scivolando sempre più verso una società di Nimby, che vede nella scheda elettorale un menù da cui scegliere il prossimo pasto più che un’idea a cui dedicare il proprio impegno.

Una nuova speranza

Per fortuna non è tutto perduto. La generazione di chi ha scritto questo editoriale – quei millennial che hanno pagato sulla loro pelle il prezzo più caro di tutti in termini di schiavismo lavorativo e futuro negato – è fin troppo disillusa ma nei più giovani c’è molto entusiasmo, tanto attivismo, voglia di partecipare e di cambiare le cose come non si vedeva da generazioni. Ad esempio su temi come il cambiamento climatico e i diritti civili si possono constatare esempi virtuosi, da cui dovremmo tutti imparare.

Fanno bene. E speriamo che continuino a interessarsi della cosa pubblica. Non esiste miglior modo di cambiare le cose che agire in prima persona, ognuno secondo le proprie inclinazioni e i propri talenti.

Tenendo ben presente che i grandi cambiamenti non si fanno scegliendo da un menù, ma cambiando se stessi per cambiare tutti.

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Giacomo Stiffan

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