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Economia

Movimento, addio: Di Maio abbandona Conte

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Fabiana D'Eramo

Per la prima volta il Movimento 5 Stelle sperimenta la scissione. Lo strappo viene da un suo pezzo da novanta, Luigi Di Maio. Tre volte ministro in una sola legislatura in cui è stato la metà di un governo populista e pure di uno di sinistra. Ha preso un avvocato dal nulla e lo ha messo a capo di entrambi gli esecutivi. Ora gli volta le spalle. C’era ai tempi del “vaffa day”, del divieto di parlare in tv, della regola del doppio mandato e in quelli del “mandato zero”. Una volta ha anche proposto l’impeachment per il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Ha comunque sostenuto la sua rielezione all’inizio di quest’anno. Questo Luigi Di Maio, o uno tra questi, ha salutato il Movimento 5 Stelle – lo stesso che, da capo politico, aveva portato al 32 per cento alle elezioni politiche del 2018 – e annunciato, per dirla a modo suo, il “cambio di casacca”. Il suo nuovo gruppo parlamentare si chiamerà “Insieme per il futuro” e si chiude così una fase – la più “stellare” – di uno dei gruppi politici pilastro della cosiddetta Terza Repubblica.

Leggi anche: Siamo tutti Luigi Di Maio

I motivi

A provocare lo strappo finale il disallineamento con Giuseppe Conte sull’invio di armi a Kyiv a scopo difensivo. L’annuncio arriva infatti a ridosso del voto della risoluzione di maggioranza sull’Ucraina. Secondo l’attuale capo politico del Movimento, è arrivato il momento di supportare il governo di Zelensky con altri mezzi. Per esempio, la proposta del senatore pentastellato Stanislao Di Piazza è quella di mandare loro pigiami. Il capo della Farnesina non ha digerito il no categorico all’invio di nuove armi, temendo che questo possa disallineare l’Italia dall’alleanza Nato e dell’Ue, mettendo a repentaglio la sicurezza del Paese. Per questa posizione, Di Maio, ex antisistema scopertosi ora atlantista ed europeista, è finito nel mirino del consiglio nazionale del Movimento.

Che il fu primo partito in Italia – stando al numero di seggi in Parlamento, ora è secondo dietro la Lega – si scinda su un argomento del genere (in un Paese storicamente poco interessato alla politica estera) è curioso, ma la controversia in realtà si aggiunge alle dure critiche di Di Maio alla leadership di Conte dopo il fallimento elettorale alle elezioni amministrative. L’inevitabile epilogo dopo settimane di frecciatine.

E se l’ex premier è felice di essersi liberato di una zavorra, e Alessandro Di Battista gli dà del traditore, Beppe Grillo si limita a salutare con la mano la dipartita di uno dei pilastri della prima – e pure della seconda – stagione a Cinque Stelle: d’altronde, se non si crede più alle regole del gioco

Quali regole?

Ma il gioco era più semplice, una volta. A inizio 2013, quando Di Maio e i suoi sono stati catapultati in Parlamento con percentuali inattese, la regola era entrarci da estranei, anzi, da nemici: i nemici della casta. A partire dal fatto che il loro non fosse un partito, che i rapporti al suo interno fossero di natura orizzontale, che fossero tutti capi e quindi che nessuno lo fosse, tutti devoti a una sola vera idea, la sovranità popolare, al cui cospetto inginocchiarsi, da parlamentari, due sole volte. E poi togliere il disturbo, non sprofondare nella poltrona, non mangiarsi i soldi dello Stato. E, soprattutto, non perdere tempo in televisione: non ci fidiamo dei politici, ci vogliamo fidare dei media?

Quasi una decade dopo, di queste regole resta solo l’eco dei toni accesi di un tempo. Punto di riferimento del vecchio movimento anti-tutto non è più un comico, ma un avvocato in giacca e pochette che una volta si fa accompagnare da Matteo Salvini, quella dopo da Nicola Zingaretti. Nel frattempo, Di Maio ci ha spiegato che i mandati possono anche essere tre, semplicemente perché “il primo non si conta”. E ora che si può cambiare partito senza dimettersi e ripassare per il voto popolare. E se abbiamo imparato ad allearci con gli altri politici, vogliamo davvero continuare a disdegnare i media?

In questa incoerenza resta il punto interrogativo sulla vera natura del Movimento. Su cosa resta di quello che era alla Genesi – se è mai stato qualcosa di più di un affronto alle élite. Di ideologie non ne ha mai avute, ma in questo è moderno al punto giusto: le grandi ideologie sono cadute da tempo. Ma non si vede nemmeno l’ombra di un’idea che non si contraddica tra la principale e la subordinata dello stesso periodo. Il Movimento 5 Stelle è il partito liquido per eccellenza, così liquido che quando Di Maio decide di lasciare, non è ben chiaro che cosa stia lasciando. E quando Conte sceglie di restare, dov’è che resta, di preciso?

Leggi anche: Di Maio era un passo indietro prima ancora di dimettersi

Il futuro di Di Maio e del Movimento

Insieme per il futuro, quindi. Per fare cosa? Per andare dove? Il piano, in realtà, c’è. Di Maio andrebbe a occupare lo spazio già affollato del centro. Beppe Sala, Gianfranco Librandi, Federico Pizzarotti, Bruno Tabacci, Luigi Brugnaro, ma anche Giancarlo Giorgetti e gli altri leghisti insofferenti a Salvini: questi i nomi degli interlocutori. E poi il progetto politico vero e proprio, in autunno. Da parte sua, Conte resta al governo e per ora non mette in discussione il sostegno a Draghi. Ma i 5 Stelle sono a pezzi, e forse l’unica prospettiva è quella di spostarsi su posizioni via via sempre più critiche nei confronti della maggioranza e puntare sul fascino dell’opposizione. Che questo possa riportare il Movimento alle origini, alla sua natura anti-establishment, è da vedere.

Risultato di questa scissione restano due distinti gruppi politici opachi, a spartirsi quello che resta dei lustri degli anni Dieci. Di un successo basato sul solo fatto di essere diversi. E, ora che si è uguali, agli altri poco resta.  

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Fabiana D'Eramo

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