Non si scandalizzino, i giovani fan della poetessa di Instagram Rupi Kaur (che domina le classifiche di vendita con le sue raccolte Milk and Honey, The Sun and Her Flowers e Home Body) per l’accostamento con l’influencer di moda. Non si raggiunge il numero record di 4,5 milioni di follower su Instagram solo scrivendo poesie. La vetrina social per eccellenza è il regno dell’estetica e la 29enne canadese di origini indiane lo sa e sa come sfruttarla.
Prima ancora di leggere una qualsiasi delle sue poesie e di mettere le mani su una delle sue raccolte poetiche (nel 2017 Milk and Honey ha venduto più di tutti gli altri primi dieci libri di poesia messi insieme) i suoi follower e i semplici curiosi che scorrono il suo profilo sono rapiti da lei e comprano l’immagine di una donna caleidoscopica, fiera e bellissima.
Le date del suo tour mondiale vanno a ruba e quella al teatro Malibran di Venezia il 23 ottobre 2022, l’unica al momento annunciata nel nostro Paese, ha già messo in crisi i suoi fan italiani, che supplicano per avere altre serate per ascoltare l’autrice canadese guidarli attraverso un viaggio esperienziale tra dolore, godimento e ironia.
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Rupi Kaur si colloca nel punto in cui la frase “La prima persona X a fare Y” smette di essere una domanda e diventa un’affermazione, un luogo in cui sembra trovarsi bene. D’altronde, si tratta di una ragazza che appartiene a una generazione, quella del suoi follower e di quelli poco più giovani di lei, cresciuta a pane e social. Lo strumento più meritocratico e insieme più stritolante, nella sua crudeltà, che si possa concepire.
Nel 2014 Rupi pubblica la sua prima raccolta poetica, Milk and Honey, anzi si auto-pubblica: proprio come la maggior parte degli autori auto-riferiti che affollano con la loro tenera mediocrità i forum di scrittori per cercare conforto, supporto e qualcuno a cui vendere una copia. Il libro ha un buon successo, nonostante raccolga i tormenti e le speranze di una giovane donna immigrata dal Punjab (parole della stessa autrice).
Appena un anno dopo viene pubblicato in una seconda edizione, questa volta da un editore, e succede un altro fatto che determina il balzo di Rupi Kaur dagli scaffali di qualche biblioteca ben fornita ai teatri di tutto il mondo. Instagram, che proprio in quell’anno cresce esponenzialmente moltiplicando del 600 per cento i suoi utenti, censura una sua foto in cui mostra il suo sangue mestruale.
Rupi reagisce con una risposta che denota una straordinaria grazia espressiva e, insieme, una stilettata acuta e insopportabilmente logica:
Non mi scuserò per non avere nutrito l’ego di una società misogina che vuole vedermi in mutande ma cui non va giù una piccola macchia di sangue.
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Insomma, la donna diventata un fenomeno globale grazie ai social che li critica per il trattamento bigotto che riservano ai corpi femminili, dai quali però gli stessi social traggono profitto. Non una doppia ipocrisia, però: Rupi Kaur, come (quasi) ogni ragazza di venti o trent’anni sui social appare nella sua veste più patinata e modaiola possibile e lo dimostrano i numerosi reel e i fotoset che la ritraggono nel suo splendore di donna. Ma è anche vero che questa patina, e la relativa consapevolezza che dimostra di nutrire nei confronti di questa dinamica, la rendono un fenomeno sfuggente, poco incasellabile nella confortante definizione di “Chiara Ferragni della poesia”.
Rupi Kaur fa sua questa ipocrisia che lega i social a lei (“volete vedermi in mutande ma vi scandalizzate se si macchiano di sangue”) e lei ai social, alimentando la sua poesia di necessari, auto-riferiti, ma anche goduriosi scatti da vera influencer. L’insieme di sincerità e lucidità, una certa dose di ego che fa sì che dei suoi 4,5 milioni di follower non ci sia nessuno degno di essere seguito da lei e la cruda consapevolezza di una “che si è fatta da sola” la rendono una creatura strana, inscrivibile nella categoria della tipica ragazza di Instagram e allo stesso tempo restia a qualsiasi definizione.
Una vera onda di empatia, calore e allo stesso tempo dolore invade chi assiste ai suoi spettacoli, che non sono veri e propri reading né sono davvero definibili come spettacoli teatrali. Sono performance vibranti, rassicuranti e inquietanti, come una dose di eroina.
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Le sue poesie sono la proiezione esteriore ed estetica (è anche illustratrice dei suoi libri) di un mondo interiore variopinto, agitato, ribollente di arte, sesso, domande, amore, rifiuto, in una parola: di giovinezza. La formula è fresca, semplice, fatta per funzionare nella giungla spietata dello scrolling selvaggio. Un paio di versi, poche decine di parole, quello che ci sta in una foto da caricare su Instagram e che si legge in pochi secondi.
La sola idea di te/mi divarica le gambe/come un cavalletto con la tela/che implora arte.
Sono versi destinati a sconfiggere l’orgia di contenuti effimeri che affollano i social e a rimanere nell’immaginario collettivo anche tra decenni? Ai posteri l’ardua sentenza e, in fondo, chissenefrega. Come per Amanda Gorman, la più giovane ad aver letto una sua poesia durante la cerimonia di insediamento di Joe Biden alla Casa Bianca lo scorso gennaio, non è importante il contenuto (nel suo caso, piuttosto noioso), ma tutto il corollario.
La gestualità, il contesto, la relazione con il mondo (anche e soprattutto quello social), l’immagine, la straordinaria capacità di aver colto l’attimo ed essersi ritagliata lo spazio che a molte persone come lei (giovani, immigrate, donne) è negato, diventando la loro voce. È questo che fa di Rupi Kaur un fenomeno, sui social e sugli scaffali delle librerie. La consapevolezza con cui succhia il midollo di superficialità della bacheca di Instagram per restituirci poesia chiara, limpida e cruda come un colpo di lametta su un braccio.