Ha fatto scalpore la recente sentenza della Corte Suprema statunitense, che ha de facto eliminato la tutela federale del diritto all’aborto, lasciando campo libero alle deliberazioni dei singoli Stati.
Abbiamo assistito a proteste, lacrime ed esultanze da stadio. Un panorama evocativo, che ricorda un po’ troppo i famosi e gioiosi applausi post-affossamento Ddl Zan.
In ogni caso, se vero è che l’aborto è sempre esistito (è stato a lungo l’unico sistema di controllo delle nascite, si veda John M. Riddle, Contraception and Abortion from the Ancient World to the Renaissance), probabilmente la sentenza non diminuirà le Ivg (interruzione volontaria di gravidanza), ma accrescerà il numero di donne morte di aborto (domestico, fai da te, in frettolosa telemedicina, e così via).
Già ora si lamenta uno shortage in pillole anticoncezionali, contraccettive d’emergenza e abortive, acquistate compulsivamente da donne o famiglie che ne abbiano la possibilità. Persone mosse dalla paura che a questa prima sentenza ne seguano altre, sempre più distopiche.
Le grandi multinazionali statunitensi sono intervenute, offrendosi di aiutare e finanziare le loro dipendenti, qualora volessero abortire in modo sicuro ma le leggi del loro Stato lo impedissero.
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Che il simbolo per antonomasia della crescita capitalistica diventi il Messia della Donna può sembrare ironico, o suggestivo, in base alla posizione ideologica di chi guarda.
Le fazioni in gioco:
Questa intrusione del privato mercato nel privato corpo può risultare preoccupante; oppure rappresentare l’ultimo passo della civiltà capitalistica, la dimostrazione che il Mercato può risolvere là dove lo Stato fa disastri. Una discussione simile legata al contesto statunitense lascia forse il tempo che trova; e tuttavia agli occhi di chi scrive una riflessione è necessaria. Dobbiamo sostenere che queste aziende stiano mostrando del buon cuore? O che stiano cercando di preservare la propria immagine da possibili ondate di cancel culture? E in questo caso, non sarebbe forse dimostrazione che la demonizzazione di questa culture è anch’essa discretamente peregrina, se questi sono poi i suoi effetti positivi?
Le ingerenze della cultura lavorativa nelle sfere personali dei dipendenti (e non solo) e nei loro corpi fanno ormai parte del quotidiano, negli Stati Uniti come in Italia, per cause fondanti di carattere differente.
Leggiamo frasi motivazionali sul «lavorare per vivere, non vivere per lavorare», come se fosse pura questione di scelta, e non una situazione spesso complessa e con l’apparenza di una ghigliottina.
Leggiamo di discriminazioni sulla presentazione di genere dei dipendenti, sulle preferenze estetiche che devono rispettare, discussioni che sembrano specchi per le allodole.
Le lamentele e le preoccupazioni per il calo delle nascite (che, a onor del vero, sembrano meno sentite negli Usa) si contrappongono alla mancanza di tutele per i neogenitori. E se da loro manca regolamentazione per congedi di maternità e paternità, sussidi per cura e istruzione dei figli, assistenza sociale continuata, da noi il tutto (sorvolando sulla penosa mancanza di considerazione per la responsabilità paterna, e relativo congedo) sembra piuttosto fragile.
Negli Stati Uniti, in fondo, questi aspetti sono spesso e perlopiù legati al welfare aziendale, il che rende meno stonato l’intervento di Disney & Co. anche nelle Ivg delle loro dipendenti. Forse sembra stonato a noi, dalla distanza dei nostri sistemi europei, inquietati dal dipendere da un sistema di quadri imprenditoriali se si tratta di assistenza sanitaria.
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Cosa possiamo giudicare? Cosa assicura il nostro benedetto Sistema Sanitario Nazionale? Per tante cose, molto. Moltissimo. Degenze lunghe il necessario, interventi chirurgici sofisticati, tutti gli esami diagnostici che servano a rimetterci in piedi sani e senza pensieri.
Eppure, da donna che scrive, il Ssn ci ha assicurato molto poco: il ginecologo dell’ospedale pubblico è guardato con terrore, la contraccezione è una spina nel fianco mensile, e dalla relazione 2020 sull’attuazione della legge 194/78 contenente norme per la tutela sociale della maternità e per l’interruzione volontaria di gravidanza è evidente come la percentuale di personale medico obiettore di coscienza sia ancora altissima. 64,6 per cento dei ginecologi, 44,6 per cento degli anestesisti e 36,2 per cento del personale non medico. Sono disponibili 2,9 punti per Ivg ogni centomila donne in età fertile. Il diritto all’aborto, e quindi a una maternità volontaria e consapevole, è ancora minacciato e messo a dura prova.
Tra un medico che nel pubblico è obiettore e nel privato no e la Disney che ci paga la gita abortiva, è difficile identificare un gradiente di inquietudine. È sempre lei, è sempre lì: nella conclusa, o mai esistita, difesa a prescindere del corpo femminile come esistenza individuale, umana e determinata.
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