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Economia

La crisi di governo e il nodo gordiano della politica italiana

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Francesco Stati

Il presidente del Consiglio risponde all’ennesimo penultimatum di Conte e rassegna le dimissioni. Mattarella, però, le respinge e rimanda la risoluzione della crisi alle Camere. Galeotto fu il termovalorizzatore di Roma. Mercoledì si decide il futuro del governo (e del Paese)


Dopo il periodo peggiore del Covid-19, la natura si “riprende i suoi spazi” e riporta in Italia una specialità della casa: la crisi di governo, la numero 68 su 67 esecutivi (!!!). Se nel corso degli anni a generare la rottura sono state le motivazioni più disparate, dai risultati elettorali a qualche mojito di troppo, in questa circostanza il motivo del contendere è la monnezza. O meglio, un bruciamonnezza nella città della monnezza per eccellenza, Roma. I grillini, che nei loro cinque anni al Campidoglio hanno fatto dell’Urbe una discarica a cielo aperto, proprio non ci stanno a veder spazzato via da un termovalorizzatore l’encomiabile lavoro di Virginia Raggi. Così, quando hanno appreso che nel decreto Aiuti (un provvedimento che contiene numerose misure per gestire la crisi economica) era presente l’odiato centro di smaltimento avanzato dei rifiuti, hanno deciso di sfilarsi dalla maggioranza uscendo dal Senato al momento della votazione della fiducia. 

In tempi diversi, per 172 voti favorevoli e 39 contrari a Palazzo Madama si sarebbe stappato “quello buono”. Non in questo caso, con il Paese stritolato dall’inflazione e una classe politica che ha delegato a Mario Draghi la gestione di una delle più gravi emergenze della storia italiana. L’ex presidente della Banca centrale europea, come condizione programmatica del suo esecutivo, aveva vincolato i partiti a un governo di unità nazionale. Obiettivo: garantire all’Italia le riforme necessarie per l’accesso ai miliardi del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), indispensabile per stimolare la ripresa economica e sociale di uno dei Paesi più colpiti dalla pandemia.

Nel suo discorso post-giuramento, Draghi aveva chiesto ai partecipanti all’Esecutivo di rimanere coesi. Con la fuga dall’aula del 14 luglio, una componente di assoluto rilievo (ministri compresi) si è sfilata dalle sue responsabilità, infrangendo il patto. E così, l’inquilino di Palazzo Chigi, giudicando il fatto «molto significativo dal punto di vista politico», è salito al Quirinale da Sergio Mattarella per rassegnare le dimissioni. 

Leggi anche: Non un politico, una star al paesello. Giuseppe Conte e il tour del consenso mancato.

Il presidente della Repubblica, però, è stato di diverso avviso. Questi, infatti, «non ha accolto le dimissioni e ha invitato il presidente del Consiglio a presentarsi al Parlamento per rendere comunicazioni, affinché si effettui, nella sede propria, una valutazione della situazione che si è determinata a seguito degli esiti della seduta svoltasi oggi presso il Senato della Repubblica». Una “parlamentarizzazione della crisi”, una verifica dell’esistenza della maggioranza, stando alla dottrina. Nei fatti, però, c’è di più. La mossa, oltre che formale, è politica: con il venir meno di questo esecutivo, quale altra personalità potrà garantire la gestione degli adempimenti del Pnrr? Quale altra figura politico-istituzionale ha la credibilità internazionale di Mario Draghi? Chi altri è così trasversalmente apprezzato dai partiti, senza il cui sostegno è impossibile approvare le riforme in Parlamento? Mattarella, ben conscio di questi elementi (e del fatto che gli italiani, stando ai sondaggi più recenti, sono per il 60 per cento favorevoli a Draghi al governo), ha rimandato alla politica la responsabilità di sbrogliare la matassa. Che, a dirla tutta, sembra più un nodo gordiano.

Dei partiti dell’esecutivo, Partito Democratico e Forza Italia sembrano intenzionati a proseguire a ogni costo, tra immobilismi e timori elettorali; la Lega, bloccata dai dubbi del segretario Matteo Salvini, un po’ vuole il voto, un po’ i “tempi supplementari”; i cinquestelle, trascinati dal parvenu della politica Giuseppe Conte, sanno che le urne li cancellerebbero dal Parlamento, ma che anche restare al governo ne minerebbe ogni credibilità residua; Di Maio e i suoi, redenti dal grillismo neanche un mese fa, hanno bisogno di molto altro tempo per trovare un elettorato che si convinca che Insieme per il futuro lo abbia, un futuro, e che non sia l’ennesima giravolta di una politica arteriosclerotica.

Dubbi che dilaniano

A uscire vincente da questa crisi è solo Fratelli d’Italia: se si risolverà, Giorgia Meloni griderà al complotto dei poteri forti che non vogliono far votare gli italiani; se non si risolverà, la leader raccoglierà i frutti dell’opposizione a oltranza regalando al suo partito una vittoria con ampio margine che, oggi, appare scontata. L’unica certezza è l’ennesimo suicidio politico dei cinque stelle: la mossa di Conte ricorda quel tale che, per far torto alla moglie, si evirò.

Piaccia o meno, i tempi supplementari invocati dal ministro dello Sviluppo Economico, il leghista Giancarlo Giorgetti, ci saranno. Mercoledì Draghi andrà alle Camere per verificare la maggioranza, un’azione invero già invocata da Silvio Berlusconi da prima della crisi del 14 luglio. Ai partiti il compito di trovare una via di uscita dalla fine del governo. Impossibile fare previsioni: si annuncia il fine settimana più rovente della nostra lunga estate caldissima. 


P.S. Qualcuno ha visto, dietro la crisi, la mano della disinformazione russa e di Putin. È vero che l’informazione nostrana è infiltrata da propagandisti del Cremlino, tra sedicenti esperti di terrorismo internazionale, filosofe della complessità ed ex deputati che fanno “inchieste” su una Russia dove sembra andare tutto alla grande. È altrettanto vero che l’ex presidente russo Medvedev ha esultato su Telegram per la fine del governo italiano e di quello inglese. Tuttavia, il prossimo esecutivo britannico sarà, se possibile, ancor più filoucraino. Quanto a noi, a Mosca possono stare tranquilli: siamo bravissimi a distruggerci da soli, non ci serve alcun aiuto esterno. 

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Francesco Stati

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