«Il cessate il fuoco tra i partiti potrebbe durare per altri sei mesi al massimo prima che prenda il sopravvento la febbre elettorale». Così, agli sgoccioli dell’anno scorso, il Financial Times prevedeva i deragliamenti del governo italiano.
Poco più di sei mesi sono passati. Il governo Draghi è caduto. Abbandonato, non sfiduciato, dalla sua maggioranza. Ora le dimissioni, lo scioglimento delle Camere, in autunno – si dice il 25 settembre – le elezioni. Meno di tre mesi per immaginare il nuovo esecutivo, senza concedersi un momento per esprimere cordoglio per quello appena finito. Non c’è tempo per i patetismi. Un altro giornale straniero, stavolta El País, citando Ennio Flaiano, ci ricorda che in fin dei conti quella a cui stiamo assistendo può assumere toni tragici, ma resta una commedia: «In Italia la situazione è grave, ma non è seria».
Vediamoli, allora, i possibili scenari. Consci che c’è tutto il tempo di veder nascere alleanze insospettabili e maggioranze alternative rispetto al quadro che abbiamo oggi.
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La disintegrazione del Movimento
Il Movimento 5 Stelle e il suo attuale leader Giuseppe Conte hanno aperto la crisi di governo in un momento nazionale e internazionale estremamente delicato. Il motivo è evidente: la disintegrazione di un movimento politico che nel 2018 ha ottenuto più del 30 per cento dei consensi, e oggi con fatica sfonda il tetto del 10 per cento. Senza contare la scissione appena subita. Non votare la fiducia sul decreto Aiuti, provocando così la caduta di Mario Draghi, non ha avuto nulla a che fare con il decreto Aiuti.
Questa crisi di governo è l’epilogo di una storia di lento logoramento, di leader incolori e politiche poco convincenti. Il posto che il Movimento può occupare in questo nuovo futuro è quello dell’opposizione. E da lì provare a ricominciare, cucirsi una pelle nuova. O rivestire i vecchi panni degli anti-tutto, alieni della politica che il parlamento lo aprirebbero come una scatoletta di tonno. Posto che la formula sia ancora credibile. Una cosa è certa: il confuso agitarsi dei 5 Stelle si conclude con la strada aperta a un governo di centrodestra. Chi ha scritto l’inizio della crisi ora si affanna a trovare un posto tra le note a piè di pagina del governo che verrà.
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Centrodestra unito che vince non si cambia
Ora che la porta è sfondata, il centrodestra si prepara a entrare. È il ritorno ai vecchi entusiasmi della campagna elettorale, l’eccitante idea di proporre agli italiani cose impossibili come un governo eletto dai cittadini, in barba ai limiti costituzionali. Ma è anche tempo di bilanci. Giorgia Meloni ha atteso sull’uscio che la parabola Draghi corresse la sua curva discendente, mentre i suoi alleati, dall’interno, per diciassette lunghi mesi sono rimasti mansueti. E forse è per questo, per il terrore che l’“effetto Draghi” impoverisse la sua leadership – che senso ha Matteo Salvini addomesticato? – che il leader della Lega ha deciso di seguire Giuseppe Conte nella sua fuga dal governo. Per non diventare come lui, insignificante, mentre la leader di Fratelli d’Italia, fedele a sé stessa, veniva premiata per la sua fermezza, superandolo nei sondaggi e, di fatto, divenendo papabile come prossimo presidente del Consiglio.
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La regola del triumvirato, infatti, era quella. Il leader del partito più votato vinceva la coppa del premier. Se si votasse oggi, stando ai sondaggi di Supermedia Youtrend, la coppa andrebbe a Giorgia Meloni (22 per cento). Ma lasciando alle prossime settimane il dibattito sulla dislocazione esistenziale di Salvini (14 per cento) che, per la prima volta dal 2018, si trova in un’alleanza nella quale non la fa da padrone, resta il fatto che se si andasse a votare oggi il centrodestra unito vincerebbe le elezioni.
Forza Italia, che in tutto questo ha camminato lungo un filo teso fra draghiani e sovranisti, inizia a perdere i suoi soldati. Prima Maria Stella Gelmini, poi anche Renato Brunetta, Mara Carfagna e Andrea Cangini hanno sbattuto la porta. «Non sono io che lascio, è Forza Italia che lascia sé stessa», ha commentato il ministro Brunetta. «Non votando la fiducia a Draghi il mio partito ha deviato dai valori fondanti della sua cultura: l’europeismo, l’atlantismo, il liberalismo, l’economia sociale di mercato, l’equità». Valori che, in tutta franchezza, non hanno mai contraddistinto nessuno dei due alleati di Berlusconi, ma finora non si era lamentato nessuno. E certo non è il caso di temere che le plateali uscite dal partito di chi il partito lo ha sostenuto dal 1994 porteranno Berlusconi a mettere a repentaglio la coalizione. Affatto. Anche a costo di accettare il ruolo di subalternità alla linea illiberale del duo Salvini-Meloni. D’altronde il centrodestra, soprattutto nel nostro Paese, conosce la regola per cui “uniti si vince, divisi si perde”. Brian Eno diceva che esistono diverse visioni sul futuro, ma un solo status quo, ed è per questo che le destre vanno d’accordo e la sinistra si scinde a giorni alterni.
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Il PD fa i conti con il suo finale di Shutter Island
«Cosa sarebbe peggio? Vivere da mostro o morire da uomo per bene?». O, per parafrasare Scorsese, cosa sarebbe peggio per il PD? Allearsi di nuovo con i 5 Stelle o porre fine all’esperienza del campo largo con un filo, un filo di dignità in più?
Ai democratici, che non possono contare sui grandi numeri di nessun altro piccolo partito del centrosinistra, resta da fare i conti con il proprio sistema di alleanze elettorali. Perché se la fiducia a Draghi l’hanno data, e l’astensione del Movimento l’hanno condannata, qualunque accostamento al partito di Conte ora risulterebbe incoerente e fuori luogo. E a chi dice che si deve pur trovare una alternativa al centrodestra, che è una scelta di sopravvivenza, quella alternativa doveva essere costruita e ribadita ogni giorno, nonostante l’emergenza richiedesse di venire a patti con tutti, invece di snaturarsi e perdere consistenza in un mare di fumosità a cinque stelle. Letta adesso dice: «Ora pensiamo a noi». Non avrebbero mai dovuto smettere di pensarci. Perché se vogliamo rigirare il titolo de El País con un poco di pessimismo, la situazione in Italia non è seria. Eppure, è grave.