Ci sono ricorrenze più importanti di altre, eventi il cui significato tocca le corde più intime dello spirito di una nazione. Il 2049 è una di queste. Se da un lato la Cina festeggia il centenario dalla nascita della Repubblica Popolare, dall’altro guarda a questa celebrazione come a un momento per riflettere sui progressi e gli obiettivi raggiunti nei suoi cento anni di storia. Non sorprende quindi che proprio con questa data coincida la scadenza entro la quale l’attuale presidente Xi Jinping ha dichiarato di voler annettere alla madrepatria il piccolo Stato insultare di Taiwan.
Che sia solamente una mossa formale o propagandistica? La storia delle due realtà asiatiche ci insegna ben altro e impone una riflessione più ampia sulle ragioni che hanno riportato agli onori della cronaca l’annosa questione di “una Cina, due sistemi”.
I tentativi di annessione di Taiwan cominciano, di fatto, dall’anno della fondazione della Repubblica Popolare Cinese, e affondano le proprie radici in una molteplicità di ragioni diverse, alcune profondamente legate ai retaggi imperialisti e altre a fattori di convenienza economica e geopolitica.
In un’ottica storica, la Cina vuole annettere Taiwan come ultimo tassello per completare la riunificazione del Paese. Questo le consentirebbe di porre fine a decenni di contrasti interni, rivendicando ancora una volta la necessità di mantenersi unica, egemone e indivisa. A questo, si aggiungerebbe il significato politico della conquista, come deterrente a qualsiasi istanza separatista per mettere in guardia le altre realtà regionali dall’esempio di Taiwan, una società di cultura storica cinese che gode di democrazia, libertà, diritti umani ma anche tecnologia e sviluppo socioeconomico. Una minaccia troppo grande all’essenza della Repubblica stessa, e all’esempio che potrebbe generare.
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I fattori geopolitici rappresentano un altro lato della storia. L’isola desta estremo interesse sia per la sua posizione geografica che per la sua centralità economica. La sua collocazione nell’Oceano Pacifico ne ha fatto uno dei principali hub manifatturieri globali del mondo, con circa il 60 per cento dei volumi commerciali internazionali transitanti sul suo territorio, per un valore totale annuo di quasi 5,3 trilioni di dollari.
Ancora più sorprendente è però il peso economico del piccolo Stato insulare. Il suo prodotto interno lordo ha superato quello di nazioni come Svizzera, Svezia e Arabia Saudita ed è possibile collocarla tra le prime venti economie del pianeta. Inoltre, Taiwan detiene il 92 per cento della capacità produttiva di semiconduttori avanzati, ovvero dei componenti industriali fondamentali per la realizzazione di dispositivi medici e militari, auto, smartphone e pc.
Non ultimo, vi è un fattore militare che risiede alla base dei contrasti tra Usa e Cina sul territorio, e ha a che fare con la relazione consolidatasi nel tempo tra Taiwan e il colosso americano.
Negli anni Cinquanta e Sessanta, gli Stati Uniti hanno supportato economicamente lo stato dell’Isola di Formosa, raggiungendo l’apice del sodalizio con la firma del Taiwan Relations Act del 1979 con il quale gli Stati Uniti si impegnarono a fornire armi e strumenti di autodifesa a Taiwan, seppur non riconoscendolo de iure come governo legittimo.
A partire dalla Seconda guerra mondiale, inoltre, gli Stati Uniti hanno eretto avamposti strategici e militari in Asia per assicurare tanto un’influenza duratura sul continente, quanto il corretto sviluppo del commercio internazionale. La perdita dello status d’indipendenza di Taiwan comporterebbe per gli Usa sia la scomparsa di un suo basilare avamposto sul Pacifico che soprattutto l’incapacità di garantire il controllo sul commercio nella regione, con risvolti potenzialmente catastrofici a livello economico.
Con l’annessione di Taiwan alla Repubblica Popolare, la Cina registrerebbe invece un incremento sostanziale della sua influenza militare sull’intera area, riuscendo così ad allontanare una volta per tutte lo spettro degli Stati Uniti dalle sue coste, al contempo imponendosi come realtà tecnologica globale senza eguali.
Per comprendere il significato simbolico di un’eventuale annessione di Taiwan alla Cina continentale urge fare un passo indietro e ripercorrere le tappe storiche che hanno segnato maggiormente la relazione tra le due realtà asiatiche.
Taiwan è uno Stato de facto dal 1949, anno nel quale l’isola ha rivendicato nella costituzione la propria sovranità sulla Cina continentale e la Mongolia esterna. A questa indipendenza fattuale non corrisponde una controparte giuridica, per cui in ambito internazionale Taiwan non è riconosciuta come un governo legittimo né dalla Repubblica Popolare Cinese né dagli altri membri fondatori del consiglio di sicurezza dell’Onu. Allo stesso modo, l’Unione europea, pur non riconoscendo Taiwan come realtà giuridica, ha stipulato con essa dei rapporti di collaborazione e commercio. Attualmente sono solamente tredici gli Stati sovrani, più la Santa Sede, che riconoscono Taiwan come stato legittimo e di conseguenza non intrattengono relazioni ufficiali con la Cina.
In chiave storica, la cronaca di Taiwan si intreccia e sovrappone con il percorso di assestamento e consolidamento della Cina.
Al termine del secondo conflitto sino-giapponese del 1895, Taiwan divenne parte dell’impero giapponese fino al 1945, anno in cui tornò sotto l’influenza cinese, a seguito della fine della Seconda guerra mondiale. L’assestarsi dei nuovi equilibri geopolitici risultanti dalle sorti del conflitto mondiale, unitamente alla guerra civile cinese, determinò la complessa condizione politica di Taiwan. Il conflitto civile espresse, dal 1927 al 1950, l’opposizione tra i due partiti più importanti della storia del gigante asiatico, il Kuomintang (Partito Nazionale Cinese) guidato da Chiang Kai-Shek e il Partito Comunista Cinese di Mao Zedong.
La sovranità su Taiwan da parte della Cina, che da lì a poco, a seguito della vittoria contro il Kmt, si sarebbe costituita come Repubblica Popolare Cinese, non durò molto.
Dopo la proclamazione della costituzione fondante la Repubblica, nel 1949, Mao Zedong ratificò l’appartenenza di Taiwan alla Cina continentale. La sconfitta del Kmt innescò però l’azione di ripiego del suo leader Chang Kai-Shek, il quale si rifugiò, grazie all’aiuto navale delle flotte statunitensi, con seicentomila soldati e circa due milioni di civili presso Formosa, isola principale di Taiwan, ultimo baluardo della Repubblica di Cina. Nel dicembre dello stesso anno, Kai-Shek proclamò la città di Taipei come capitale della Repubblica Cinese, affermando di rappresentare l’unica diramazione legittima del governo.
Nacquero così due Stati sovrani entrambi rivendicanti il ruolo di legittimi governatori della Cina intera. Tale contrapposizione diede seguito nel corso del tempo a conflitti e momenti di forte instabilità, anche a livello internazionale. Taiwan venne inizialmente infatti riconosciuta dalla maggior parte dei governi occidentali, mentre la Cina comunista di Mao fu appoggiata solamente da Russia e Gran Bretagna.
Gli equilibri cambiarono quando, nel 1971, una svolta americana nella sua politica estera mutò drasticamente lo scacchiere geopolitico della regione, con il riconoscimento della Cina comunista e la conseguente perdita da parte di Taiwan del proprio seggio di rappresentante della Cina alle Nazioni Unite. Agli Stati Uniti fecero seguito gli altri membri permanenti del consiglio dell’Onu, e successivamente le altre forze occidentali inizialmente legate a Taiwan. Lo Stato insulare si trovò così senza alcun riconoscimento de iure, e politicamente spaccato tra i sostenitori di una riunificazione con la Cina (il Partito Guomintang) e i fautori della totale indipendenza dalla stessa (il Dpp).
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Dai primi anni Duemila fino ad oggi, la situazione è rimasta di fatto inalterata. Le istanze indipendentiste di Taiwan hanno generato risposte militari e politiche più o meno forti da parte della Cina, la quale opera in forza del principio secondo cui a un tentativo di Taipei di proclamazione d’ indipendenza seguirebbe un intervento militare da Pechino. La storia di Taiwan resta così ancora indissolubilmente legata alla politica estera della Cina popolare e ai suoi piani di espansione.
Lo scorso 2 agosto la Segretaria della Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti Nancy Pelosi ha visitato Taiwan, in quella che ha rappresentato la prima apparizione di un alto rappresentante degli Stati Uniti a Taipei dal 1997. La notizia non è stata accolta di buon grado da parte della Cina, la quale ha accusato pubblicamente gli Stati Uniti di stare violando la sovranità di Pechino. Da sempre ostile a qualsiasi gesto diplomatico che possa dare a Taiwan dignità di governo autonomo, la Cina ha risposto all’affronto americano con dure condanne, alle quali sono presto seguiti interventi di tipo militare. La veloce escalation dei contrasti nella regione in realtà affonda le sue radici in ragioni più profonde della sola ingerenza americana.
Seppure uno degli obiettivi dichiarati di Xi Jinping sia quello di riportare l’isola, che la Cina considera una provincia ribelle, sotto il controllo di Pechino, il segretario del Partito Comunista Cinese è consapevole che tale processo richieda del tempo. Un tentativo improvviso di conquistare con la forza Taiwan si potrebbe infatti tramutare presto in una spedizione costosa e infruttuosa, con inevitabili ricadute sulla credibilità del Pcc. Ancora più allarmante sarebbe poi la risposta internazionale, in una fase storica nella quale Taiwan si trova sotto i riflettori occidentali dopo che lo scoppio della guerra in Ucraina sembra aver accentuato la sensazione di pericolo verso ulteriori instabilità nel continente asiatico.
In questa ottica sembra ricollegarsi la visita della segretaria Nancy Pelosi, come atto formale di sostegno forte e dichiarato in funzione di deterrente per possibili iniziative offensive cinesi.
Quello che sembra essere il motivo principale dietro i recenti contrasti nella regione sarebbe invece la frequenza delle relazioni tra Taiwan e i suoi partner occidentali. I recenti avvicendamenti politici a Taiwan hanno creato una situazione di forte nervosismo in seno alla madrepatria.
Seppur complicati, i rapporti tra Taiwan e la Cina continentale sembravano essere stabili durante il governo del partito nazionalista del Kuomintang, tradizionalmente pacifico nel suo rapporto con Pechino. Basandosi sulla serenità delle relazioni, la Cina ha portato avanti una strategia graduale d’integrazione economica, isolamento diplomatico e pressione militare, con l’obiettivo di rendere inevitabile da lì a poco la resa di Taiwan. Tutto è però cambiato dal 2016 in poi, e qui veniamo ad oggi, con la salita al potere del Partito progressista democratico (Ppd), il quale rifiuta del tutto l’interpretazione cinese del consenso di Shanghai del 1992 che sostiene l’esistenza di “una sola Cina”.
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Con il consolidamento della permanenza al potere del Ppd, nel 2020, ottenuto con il successo elettorale che ha consacrato Tsa Ing-Wen per un secondo mandato e con la vittoria del partito progressista alle elezioni legislative a discapito del Kuomintang, il sogno della Cina di ottenere una riunificazione pacifica è svanito. A questo elemento di criticità si è poi aggiunta la ritrovata frequenza dei rapporti tra Usa e Taiwan, dopo che gli Stati Uniti, durante l’amministrazione di Donald Trump, hanno progressivamente eliminato le restrizioni sui contatti tra i funzionari statunitensi e i loro omologhi taiwanesi, e successivamente cominciato a disporre dei sistemi di armamento avanzati nell’isola.
Oggi, in linea con la precedente amministrazione, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha dato il via libera affinché i marines americani partecipassero a esercitazioni militari con le forze armate taiwanesi, e ha ribadito il suo impegno a garantire supporto a Taiwan comunicando pubblicamente che il suo Paese sarebbe intervenuto militarmente in caso di assalto cinese all’isola.
La somma di tutti questi fattori ha incrementato il senso di paura percepito da Pechino. La Cina teme di perdere il controllo della situazione qualora i contatti tra i leader del Ppd e i loro interlocutori occidentali rimanessero impuniti o si facessero ancora più insistenti. Un mancato raggiungimento della riunificazione di Taiwan comporterebbe, come detto, conseguenze tutt’altro che trascurabili sulla solidità al potere di Xi.
Ecco spiegato perché, è notizia di pochi giorni fa, la Cina abbia voluto dare prova della propria forza attraverso un programma di esercitazioni militari sullo Stretto di Taiwan, in risposta alla visita della segretaria americana Nancy Pelosi. L’attacco di Pechino, che si è concluso l’11 agosto, ha di fatto simulato un blocco navale, con alcuni caccia militari che hanno attraversato a bassa quota la linea che divide l’isola dalla Cina continentale. La campagna militare cinese ha previsto il dispiegamento di navi su larga scala e lanci di missili, nonché attacchi informatici e una campagna di disinformazione e di coercizione economica volta a indebolire Taiwan. A queste esercitazioni militari sono seguite le dichiarazioni del ministro degli Esteri cinese, il quale ha minacciato ulteriori conseguenze in caso di nuove ingerenze da parte dei Paesi occidentali.
La risposta di Taiwan non si è però fatta attendere. Durante una conferenza stampa indetta nel bel mezzo dell’offensiva cinese, il ministro degli Esteri di Taipei Joseph Wu ha condannato duramente la Cina e la sua offensiva, aggiungendo che «la vera intenzione di Pechino è quella di alterare lo status quo nello Stretto di Taiwan e nell’intera regione dell’Asia-Pacifico».
Successivamente, lo Stato insulare ha provveduto a rafforzare le proprie capacità di difesa con il sostegno americano e ha dato il via alle sue esercitazioni militari dedicate all’artiglieria con proiettili veri, a simulare la difesa dell’isola dall’attacco cinese.
Seppure le esercitazioni militari cinesi siano terminate, Pechino continuerà a effettuare operazioni di controllo sull’isola per mantenere alta la tensione politica. In poche occasioni come oggi una qualsiasi scintilla potrebbe riaccendere in maniera irreversibile un conflitto mai realmente sopito. L’opinione pubblica taiwanese è ormai largamente contraria a una riunificazione con la Cina, e il Partito comunista cinese sembra essersi arreso all’idea che, se la riunificazione avverrà, sarà tramite forza militare. La storia di Taiwan però racconta di un popolo resiliente e forgiato alla resistenza, un Davide intimamente legato alla speranza di custodire una bolla di sovranità contro i soprusi del Golia cinese.
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