Un turbillon di corpi sezionati e corpi-orecchio, pance squartate e organi esposti come in un sacrificio tribale. Teste trapanate, biopsie e sette di ricreatori di uomini. Così si ripresenta in sala Sua Scandalosità David Cronenberg. Ed è il solito Cronenberg: ambizioso. Luttuoso. Viscerale. Tenebroso. Sadico. Provocatorio. Disturbante. Divisivo. Con la baionetta carica puntata contro le storture del nostro tempo.
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Dopo sette anni di latitanza dal cinema Cronenberg scommette sull’usato sicuro: il corpo (ancora e sempre) del fido Viggo Mortensen (La promessa dell’assassino, A History of Violence e A Dangerous Method) auto-genera organi nuovi e sconosciuti. Il suo dolore estremo, nella società senza dolore come insegna Byung-chul Han, è il prezzo da pagare per usarli artisticamente con la dolce chirurga e compagna Caprice (Léa Seydoux). Le loro tecno-performances di trafittura e scavo degli organi mandano in deliquio una società ridotta a dodici oscuri voyeurs. Fin quando incontrano una setta che vuole plasmare una nuova umanità dalla morte di un bambino plasticofago ucciso dalla madre.
In una Grecia atemporale, arrugginita e semideserta, ballando tra lo sci-fi, il noir e il cyber-punk, Cronemberg ritorna a sè stesso (il titolo è un’autocitazione del suo secondo film). Sfoglia la margherita dei suoi temi e delle ossessioni, rispolvera un’estetica vintage (siamo dalle parti di Videodrome e non solo) e una fotografia chiaroscurale per sguazzare giulivo in una ripugnanza visiva che sconfina spesso nel grottesco.
Arte digitale che si esprime tra le viscere, gli organi e la loro verità fisiologica. Apparenza e rivelazione. Dolore come ultimo certificato dell’identità e chirugia come neoreligione del piacere. Fine tecnocratica dell’umano e sua auto(ri)generazione abbozzata nel solito finale aperto (forse troppo?) ai dilemmi. Il regista canadese segna il passo: per lui c’è una civiltà al capolinea. Senza scampo. E un’altra “natuaralmente innaturale” che sboccerà sui rifiuti della precedente, dalla quale per adesso, però, è ostacolata e ammazzata.
L’impressione finale, però, è di un frullatore troppo ricco e variegato per essere digerito in tutti gli ingredienti. Rinchiudere (sè stesso e) un’epoca in due ore scarse rimane un’impresa solo in parte compiuta perfino per Cronenberg. Così il film appare più stratificato che profondo. Più fascinoso che epocale. Più che scavare nella carne, avremmo preferito che la storia scavasse nei tormenti dei personaggi: Mortensen, Seydoux e una viperina Kristen Stewart strizzano l’occhio alla macchietta e restano figurine a mezzaria tra un’ingombrante preistoria cinematografica e i ranghi stretti tematici assegnati dalla sceneggiatura.
Nonostante ciò, le conseguenze dei nuovi Crimes of the future sono evidenti: un pianeta di rifiuti, la scomparsa dell’umano ingoiato da una tecnologia senz’anima. Ma Cronenberg nella smania iconoclasta di martellare il progresso si scorda l’homo sapiens. Cioè la causa della devastazione. O forse si è stufato di farlo. Ed è comprensibile. Ma di provocarlo, scandalizzarlo, sezionarlo, no. Non ancora.