di Nicola Bressan
Quest’autunno, alle urne, si giocherà il futuro dell’Unione Europea. In Italia l’appuntamento col destino politico sarà il 25 settembre. Ma anche in Svezia (l’11 settembre), in Lettonia (1 ottobre) e in Bulgaria (2 ottobre). In un contesto di estrema fragilità economica e geopolitica, con un inverno alle porte che fa già rabbrividire (chi dice freddo dice riscaldamento, chi dice riscaldamento dice gas e dipendenza da Gazprom) e una coppia franco-tedesca non più brillante come in tempi recenti, ognuna di queste elezioni può spostare le placche tettoniche della politica europea e le maggioranze relative nel Consiglio Europeo.
Ma c’è una quinta elezione, sempre quest’autunno, che influirà sull’Unione e più generalmente sul nostro Paese. Un’elezione di un Paese che nell’Ue non c’è (più). A dire il vero poi, non si tratta nemmeno di una vera e propria elezione, visto che potrà votare solo il 0,29 per cento della popolazione. Delle percentuali che fanno sembrare le europee in Italia un plebiscito, insomma. Si tratta della Leadership Race del Partito Conservatore britannico, la corsa per rimpiazzare l’ormai politicamente defunto Boris Johnson a 10 Downing Street.
La caduta di Boris e la Leadership Race
Per il contesto: la goccia che fece traboccare il vaso (ormai stracolmo) di errori di Boris sono state le rivelazioni trapelate a inizio luglio che il soon-to-be ex primo ministro aveva nominato a febbraio, pur sapendo delle accuse di molestie sessuali che aleggiavano nei suoi confronti, il parlamentare Steve Pincher come suo vice Chief Whip. E che, soprattutto, aveva dichiarato l’opposto alla stampa. Dopo lo scandalo del Partygate, le accuse varie dell’ex capo di gabinetto Dominic Cummings, un voto di sfiducia sopravvissuto con un margine inferiore a quello che fece cadere Theresa May tre anni prima e i numerosissimi scivoloni di linguaggio (due su tutti, quando paragonò le donne che portano il velo completo a delle «scatole delle lettere» e quando davanti all’élite industriale del paese improvvisò un discorso balbuziente su Peppa Pig), anche i suoi alleati più fedeli dichiararono: «Enough is enough».
O meglio, fiutarono un’opportunità golosissima. Quella di prendere il posto del politico a caschetto biondo a capo della maggioranza parlamentare conservatrice più grande sin dai tempi della Thatcher. Il tutto, fino alle prossime elezioni generali del gennaio 2025. La dinamica non è difficile da immaginare: mentre il terreno sotto i piedi di Johnson crollava, gli squali del partito iniziavano già a fiutare sangue. Uno alla volta, tutti i caporioni dei Tories si misero in fila per chiedere i voti dei loro colleghi parlamentari per essere eletti nuovo leader del partito. E per dare degli incompetenti e degli incapaci a quelli che fino a ieri erano loro colleghi. Era quindi iniziata la cosiddetta Conservative Party Leadership Race che in questo caso non elegge solo il capo del partito, ma anche del governo. Il metodo alquanto bizzarro di selezione prevede dei round di votazione susseguenti, al quale possono appunto partecipare solo i parlamentari eletti e al termine di ognuno dei quali il candidato con meno voti è eliminato. Una dinamica degna del Grande Fratello. Il tutto fino a che di candidati ne rimangono solo due. La scelta finale è poi delegata agli iscritti al partito, che nel 2019 erano all’incirca 160mila (maggioritariamente uomini, del Sud-Est dell’Inghilterra e oltre i 35 anni).
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Il nemico acerrimo del johnsonismo Jeremy Hunt, la fedelissima ministra del Commercio Penny Mordaunt, il ministro della Salute Sajid Javid: uno dopo l’altro i candidati si sono ritirati o sono stati eliminati dai round progressivi. A sottomettersi allo scrutinio degli iscritti conservatori saranno dunque l’ex ministro dell’Economia Rishi Sunak e la ministra degli Affari Esteri Liz Truss. Espresso tramite bollettino postale, il voto si concluderà il 5 settembre, giorno in cui il partito e il Paese sapranno il nome del loro nuovo leader. A dire il vero, i sondaggi non indicano molta suspense: sebbene Sunak sia arrivato primo al voto dei parlamentari, Liz Truss avrebbe un vantaggio fra i membri del partito (un elettorato molto diverso) dai 30 ai 40 punti sul suo ex collega di gabinetto.
La domanda potrebbe quindi sorgervi spontanea: a me che dovrebbe fregare di un’elezione, praticamente già scritta tra l’altro, per determinare se al governo di un Paese extra-Ue sale Tizia di Destra #1 oppure Tizio di Destra #2? Eccellente quesito. Il fatto è che (per una volta) queste primarie non sono solo un teatrino auto-referenziale, ma un vero confronto fra due visioni programmatiche non del tutto identiche a livello economico, geopolitico, ideologico. In funzione della scelta di meno di 200mila britannici, la posizione dello Uk riguardo l’Ucraina, la Cop, il G7, l’Ue o più generalmente la politica e la performance del terzo partner economico dell’Unione potrebbero cambiare drasticamente. E di questo, sì, ce ne dovrebbe fregare.
Rishi Sunak e Liz Truss: chi sono i candidati in corsa
Partiamo dal profilo dei due candidati. Da un lato Rishi Sunak, il tecnocratico: multimilionario, laureato a Oxford e a Stanford, ex Goldman Sachs, diplomato di una di quelle high school inglesi private dalla retta annuale a quattro zeri. Se non fosse per le origini indiane dei suoi genitori, avrebbe il profilo standard e stereotipato di un conservatore papabile per il ruolo di primo ministro. Ministro dell’Economia dal 2020 fino alla fine dell’era Johnson (la cui caduta ha contribuito ad accelerare, essendo il secondo ministro del governo a dare le dimissioni chiedendo l’abbandono di Johnson), il suo claim to fame principale è di essere riuscito a limitare con relativo successo gli impatti economici sui consumatori e sulle piccole-medie imprese della crisi del Covid-19. Rishi ha però due peccati capitali agli occhi dell’elettorato: ha dovuto introdurre varie tasse per far quadrare i conti pubblici e sua moglie (ereditiera indiana di un impero miliardario) è stata recentemente al centro di uno scandalo di ottimizzazione fiscale.
Dall’altro lato Liz Truss, la Thatcher-wannabe. Non ricchissima ma comunque laureata a Oxford, ha due vantaggi principali: è cresciuta nel nord dell’Inghilterra (oramai terra di conquista dei conservatori e non più feudo blindato del Labour Party) e piace ai nostalgici di Boris (non essendo mai uscita dal suo governo e non avendo preso pubblicamente posizione contro di lui). Dopo una gioventù come membro del partito centrista dei Liberal Democrats e un passato da contraria al referendum per uscire dall’Ue, è riuscita ad affermarsi come una Brexiteer di ferro e l’esponente principale dell’ala destra del partito. Dopo un inizio carriera nell’energia e nelle telecomunicazioni, diventa parlamentare nel 2010, entra nel governo nel 2014 e non lo lascia mai, anche se sotto tre primi ministri e cinque portafogli diversi.
È importante notare come il partito conservatore britannico sia molto attento, per i nostri standard italiani (o per gli standard, in generale, dei partiti conservatori), alla diversità e all’importanza politica della rappresentatività. L’origine indiana di Sunak e il sesso di Truss aiutano il partito a difendersi dagli attacchi della sinistra e a rosicchiare voti in certi elettorati. Il patrimonio immenso di Sunak, però, no. Il fatto che la coppia con la moglie Akshata Murty sia 222esima nella lista Sunday Times Rich List, neppure. Sono tanti a temere che, dopo un Boris che incarnava in sé tutte le caratteristiche del ricco privilegiato (basti cercare su Google Bullingdon Club per farsene un’idea), far seguire uno degli uomini più ricchi alla guida del Paese non sia una buona idea. Già questo dovrebbe farci pensare del tono chiaramente establishment contro il popolo di questa campagna.
Economia come tematica regina della campagna
In un contesto d’inflazione del 10,01 per cento (punto più alto degli ultimi 40 anni e dato più elevato di tutti i membri del G7), la campagna elettorale è stata prevedibilmente dominata da tematiche economiche. La divisione fra i due candidati è chiarissima. Eterodossa economicamente, Truss propone un programma incentrato principalmente sulla riduzione delle tasse come metodo di portare crescita e alleviare il carovita: ad esempio cancellando gli aumenti recenti sull’assicurazione nazionale, sospendendo le contribuzioni “verdi” obbligatorie e mantenendo la tassa sui profitti delle aziende al 19 per cento (un aumento al 25 per cento nel 2023 era stato previsto da Sunak e Johnson). Il tutto, promettendo di non ridurre la spesa pubblica attuale e aumentando la percentuale di Pil spesa in difesa al 2,5 per cento da qui al 2026. Considerando che pure nel periodo pre-Covid il deficit primario (differenza fra introiti e spese dello Stato, pre-interessi) era già del 2,1 per cento del Pil, la proposta sembra perlomeno ottimista a livello di conti pubblici. Senza poi parlare del rischio ingente di buttare ulteriore benzina sull’incendio inflazionistico in corso. E non dimentichiamolo: l’economia e il mercato britannici restano, nonostante la Brexit, profondamente interdipendenti con i nostri. Un default, una spirale inflazionista nei nostri vicini d’oltremanica ci dovrebbe preoccupare, non farci dire mors tua vita mea.
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Molto più prudente, Rishi Sunak parla di riduzioni strutturali delle tasse «solo quando avremo gestito l’inflazione». Oltre alle misure già implementate durante il suo periodo da ministro (400 sterline ad ogni nucleo famigliare per far fronte alle spese energetiche, un abbassamento di 150 stermine dei contributi locali, una tassa sui profitti supplementare delle aziende energetiche), la sua proposta principale per gestire la crisi odierna è di eliminare l’Iva del 5 per cento sulle spese energetiche domestiche. Al di fuori delle tasse, le altre riforme proposte trattano della regolamentazione dei mercati finanziari e l’investimento sul capitale umano.
Sebbene siano stati entrambi membri del governo Johnson uscente, entrambi i candidati provano l’esercizio difficile di rivendicare quanto fatto dal governo Johnson e allo stesso tempo distanziarsi almeno in parte dalla politica del loro ex capo. In un contesto di difficoltà economica generale (attribuibile, va ammesso, più alla congiuntura presente che all’amministrazione del Paese), la continuità assoluta è percepita come una posizione politicamente poco palatabile. In questo tentativo bizzarro di lodare l’operato di Johnson ma distanziarsi dalla sua condotta recente e da certi suoi punti programmatici come l’aumento delle tasse, Sunak si dimostra piuttosto limitato dal suo passato recente da ministro d’Economia e de facto numero 2 del governo. Per un allineamento magico dei pianeti politici, quindi, Truss sembra riuscire ad attirare allo stesso tempo i voti dei fedelissimi di Johnson (una fetta dell’elettorato sovra-rappresentata fra gli iscritti ai Tories, che vedono la Truss come l’unica che non ha tradito) e i voti dei thatcheriani convinti che Johnson spendesse e tassasse troppo.
Relazioni con l’Ue: l’aggressività della Truss contro la discrezione di Sunak
Una dinamica simile si trova, a dire il vero, anche sulle tematiche di relazioni con l’Ue che ci interessano ancora più direttamente. Truss è di gran lunga la più aggressiva in materia. Autrice del famigerato Northern Ireland Protocol Bill, il disegno di legge che autorizzerebbe il Regno Unito a ignorare unilateralmente delle provvisioni commerciali ratificate nel trattato della Brexit in caso contrarie agli interessi britannici, si dice prontissima a «lasciare il tavolo di negoziazioni con l’Ue» se necessario. Promette anche di ritirare entro il 2023 delle leggi europee ancora in vigore (senza però specificare quali) responsabili di aver «frenato l’economia», così come ha oramai avviato procedimenti formali di contenzioso con l’Ue per l’accesso vietato per la Gran Bretagna ai programmi di ricerca e sviluppo scientifici (bloccati da Bruxelles in risposta, appunto, al Northern Ireland Protocol Bill). Sunak è molto più discreto in materia. Sebbene abbia fatto campagna per l’uscita dall’Ue sin dal lancio del referendum, ha basato la sua carriera su altre tematiche. È dura, supponendo una premiership di Sunak, immaginare una direzione radicalmente diversa da quella tenuta fino ad ora da Johnson. Al massimo, si può sperare in toni meno esplosivi e in più negoziazione, tenendo in conto l’approccio molto più diplomatico dell’ex delfino.
Ma il problema è un altro: che tutti i pezzi grossi dell’ala Brexiter del partito conservatore sono infatuati follemente di Liz Truss. Nigel Farage e Jacob Rees Mogg, per citarne solo due, hanno riempito editoriali e rilasciato manipoli di interviste spiegando come «Solo Truss riuscirà a fare la Brexit» (Farage) e «Sunak ha ostruito i nostri sforzi per finalizzare la Brexit» (Rees Mogg). Lo stesso per i quotidiani principali della destra britannica (tranne il Times), che si son schierati apertamente per la ministra degli Affari Esteri: il Daily Mail, il Telegraph, il Daily Express. Questo appoggio non è gratuito però, perché il dovere politico del do ut des implica che Truss sarà, in caso di elezione, debitrice a questa parte dell’opinione pubblica e di esponenti politici. Così come l’avranno fatta salire al trono di Downing Street, la potranno far scendere. E un primo ministro britannico che dipende da coloro che sognano una Londra nuova “Singapore-on-Thames” può voler dire solo una cosa per l’Ue: una Brexit perpetuo con mille litigi, più aggressività e un peggioramento ulteriore delle relazioni Uk-Ue, già al minimo storico.
Lotta al riscaldamento globale, quella non pervenuta
Ultima area della nostra analisi (andare più in dettaglio è impossibile per il perimetro di questo articolo) è quella climatica. Nessuno dei due candidati, va detto, può proprio essere considerato un attivista di Fridays for Future. Anzi. Per quanto nel quadro dei partiti di centrodestra a livello europeo quello britannico sia fra i più sensibili alle tematiche ecologiche (l’obiettivo del net zero nel 2050 non è messo in questione da nessuno dei candidati), la tematica è stata del tutto secondaria nella campagna. Nei primi due dibattiti televisivi fra i due candidati, la questione ha occupato solo due minuti di trasmissione. Per una ragione semplice, cioè che gli iscritti al partito non votano in funzione di questa tematica. In parte perché il potere d’acquisto sembra più prioritario e urgente, in parte perché in fin dei conti, è comunque del partito conservatore di cui si sta parlando.
Senza sorpresa, Truss si dimostra di nuovo come la più la radicalmente destrorsa in materia. Fra le proposte messe in avanti: rivedere il divieto della trivellazione, costruire più centrali nucleari e (come menzionato prima) sospendere le contribuzioni “verdi” obbligatorie. Basti pensare che, durante i suoi due anni da ministra dell’Ecologia sotto David Cameron, tagliò i sussidi per il fotovoltaico chiamando i pannelli solari «una piaga per il territorio». O che propone di ristrutturare i piani britannici di aiuto diretto ai governi esteri per ridurre la percentuale di fondi dedicati al combattimento del riscaldamento climatico. Sunak in materia si dimostra un pelo più verde, ma altrettanto impreciso. Parla di aumentare gli investimenti sull’eolico offshore, di investire sulla sicurezza energetica del Paese, di creare nuovi schemi di ristrutturazione e insolazione degli edifici per raggiungere più efficienza energetica. Il tutto, senza né cifre né date. Ma almeno, mi direte, c’è l’intenzione. Vabbè.
Dovremmo preoccuparci di chi sarà il successore di Boris Johnson? Sì.
Il 5 settembre, quando verranno rivelate le preferenze degli iscritti al partito conservatore per il loro leader, verrà tracciata la traiettoria del futuro non soltanto del Regno Unito ma anche dell’economia continentale, dell’Unione Europea e del pianeta. Per minimo due anni. E non ci resterà altro che sperare che il Regno Unito non abbia la terza Prima Ministro donna della sua storia. Perché un Regno Unito guidato da Truss sarebbe una fonte di instabilità economica, minerebbe ulteriormente le relazioni fra due alleati naturali in un contesto planetario in cui l’Occidente necessita più che mai unita, rallenterebbe lo slancio di transizione ecologica di un Paese che è riuscito in passato a presentarsi come leader.
Una seconda riflessione può essere estratta da queste primarie così particolari. Che ancora una volta, in questa elezione si manifesta la linea spartiacque caratteristica della politica contemporanea: l’establishment, qualsiasi cosa questo termine voglia dire per l’immaginario comune e dell’elettorato, contro il non-establishment. Quello che fa sorridere è che oramai questa retorica è talmente trasversale e onnipresente da aver colonizzato pure le primarie del partito conservatore britannico. Partito che, insomma, l’establishment dovrebbe incarnarlo per definizione. Eppure, se Liz Truss va a gonfie vele nei sondaggi è proprio perché oramai pure quell’elettorato che prima voleva mantenere il vecchio ora vuole qualcosa di nuovo (o la percezione di qualcosa di nuovo). Della candidata che promette, che dice che è possibile tutto e il contrario di tutto, che ha fiuto per dove tira il vento dell’elettorato. Perché oramai appartenere “all’establishment” non è più una questione di destra o sinistra, né di aver fatto le scuole alte, ma di attitudine. Sono oramai tacciabili dell’accusa ignobile di “cose da establishment” le seguenti caratteristiche: non parlare esclusivamente tramite assoluti e superlativi, far notare che abbassare le tasse in una congiuntura inflazionistica è pericoloso, suggerire che talvolta quello che piace non è necessariamente quello che serve. E questo dovrebbe preoccuparci.