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Come funziona la comunicazione di Giorgia Meloni?

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Giacomo Stiffan

Nei giorni scorsi un post di Giorgia Meloni è diventato virale. Si tratta della risposta che la leader di Fratelli d’Italia ha dato a Marco Marras, l’attivista per i diritti LGBTQIA+ che aveva interrotto un suo comizio a Cagliari.

Il post – qui sotto – presenta uno stile anomalo per Meloni, cosa che vari commentatori moderati vicini al centro destra hanno apprezzato.

Si tratta di un esempio concreto di come la sua comunicazione sia cambiata in maniera radicale durante questa campagna elettorale. Caso che merita di essere analizzato sia per cosa viene detto che, soprattutto, per il come.

I contenuti

Le unioni civili

Nella parte iniziale Meloni sbatte sul tavolo un carico, come si dice a briscola. Si tratta di una carta di alto valore, che funge da esca e ha lo scopo di alzare la posta: il riferimento alle unioni civili.

Storicamente lei, il suo elettorato e la sua struttura di partito sono sempre stati tra i principali avversari di qualsiasi legislazione sui diritti civili, con un particolare accanimento su quelli legati al mondo LGBTQIA+.

Fratelli d’Italia votò contro la legge Cirinnà, come ha votato contro il ddl Zan, per esempio.

Leggi anche: Ddl Zan: il triste ritorno sulla scena della politica italiana.

Sostenere ora di non essere contraria alle unioni civili, quindi, va contro ogni valore propagandato dal suo partito. Una rivoluzione copernicana, per gli elettori di destra.

Il dubbio però è che si tratti di una dichiarazione di facciata, e che Fratelli d’Italia abbia ben altre idee: se è vero che un politico non si misura su cosa dice ma su come vota in parlamento, ad oggi non ci sono elementi concreti per affermare che Meloni e il suo partito voteranno a favore dei diritti civili.

La singlefobia

Nella parte centrale incappa in numerose fallacie logiche, che verranno approfondite nella seconda parte di questo articolo. Ma un piccolo spoiler è necessario.

L’intero impianto retorico è un grande slippery slope incentrato su Giorgia Meloni: ha perso il padre da piccola e la madre non è stata in grado di sopperire alla mancanza, quindi ha sofferto dei traumi, quindi questo succede per forza a tutti i figli di genitori single, quindi va vietato.

Caso personale per caso personale: l’autore di questo editoriale ha perso il padre da bambino, proprio come lei. L’essere stato cresciuto da una madre amorevole e sempre presente ha permesso di non subire conseguenze, ma un lutto è un lutto, ed è ovviamente un evento doloroso. Attenzione però: fondere questi aspetti è un sotterfugio retorico.

Si tratta di due eventi distinti. La perdita di un genitore è una cosa, l’essere cresciuti dall’altro è tutta un’altra partita. Non è né corretto né etico mescolare le due cose.

Molti orfani di padre o di madre vengono cresciuti bene anche da un genitore single, senza far mancare nulla a livello affettivo: questo è un fatto.

Dispiace per Giorgia Meloni, che non è stata fortunata in questo senso. Ma generalizzando la sua esperienza a chiunque abbia perso un genitore da bambino sta compiendo un’operazione sporca, irrispettosa dei tanti genitori responsabili che sono stati in grado di crescere bene i propri figli da soli.

Generalizzare è sempre sbagliato, così come lo è dare per scontato di sapere cosa è meglio per gli altri, cosa con cui la destra italiana va a nozze.

La storia personale esposta qui sopra né è la prova incontrovertibile: un caso personale non fa statistica.

Ma le statistiche sulle adozioni delle famiglie arcobaleno e dei single ci sono, nei Paesi in cui questo è legale. Negli Stati Uniti ad esempio l’adozione da parte di coppie LGBTQIA+ e di genitori single è permessa da tempo (salvo legislazioni dei singoli Stati) e c’è una storicità notevole, con centinaia di migliaia di casi, e figli che ormai hanno già fatto figli a loro volta.

Ciò che si evince è che a fare un buon genitore non è il sesso biologico e nemmeno l’identità di genere. Un buon genitore è chi è un grado di garantire ai propri figli un ambiente amorevole, sicuro e stimolante: nessun bimbo preferisce l’orfanotrofio all’amore di una famiglia accogliente, e una famiglia accogliente può essere composta in molti modi diversi, ognuno con le sue specificità ma non per questo meno efficaci.

Il sesso dei genitori non ha nulla a che vedere con tutto questo.

Il discorso sull’odio

Nel finale Meloni fa un discorso che, una volta pulito dallo zucchero retorico che lo ricopre, risulta molto amaro.

Primo, se sarà presidente non si farà problemi a negare i diritti civili altrui. Mostra di ritenerli, infatti, delle concessioni che si possono revocare in ogni momento, più che dei diritti inviolabili.

È evidente da come parla delle unioni civili. Sostiene di avere intenzione di non toccarle, ma non di difenderle o ampliarle: dopotutto ha sempre votato contro di esse. Ma i diritti non sono un paio di scarpe da mettere e togliere a piacimento, in base alla convenienza del momento.

Secondo, ritiene che le persone a cui negherá dei diritti non debbano odiarla per questo. Sarebbe curioso vedere quanto sarebbe in grado di mantenere la calma se qualcuno calpestasse un suo diritto. Come ad esempio il diritto per una donna di fare politica.

Ma si sa, i diritti buoni sono solo i propri e, una volta messi al sicuro, quelli degli altri si possono benissimo negare. Un discorso un filino ipocrita.

Terzo, chiede che chi la contraddice non ne parli davanti alle telecamere. Ovvero nega un altro loro diritto, quello ad accedere ai mass media per farsi sentire. Un modo molto educato per mettere un bavaglio.

Alla luce di quanto sopra, pretendere di non essere odiata da chi vedrebbe i propri diritti schiacciati sotto il suo governo va oltre l’ipocrisia. Per chi ha sparso discorsi di odio per anni pretendere moderazione solo perché vede la possibilità di poter governare è, senza mezzi termini, mentire sapendo di mentire.

L’analisi

Struttura

Chiunque abbia frequentato corsi su come si danno i feedback troverà la struttura della risposta di Giorgia Meloni famigliare. Si tratta di una sorta di sandwich, tipico dei feedback negativi.

L’apertura e la chiusura sono le due fette di pane, morbido e fragrante: si riconoscono le qualità dell’interlocutore e si crea un canale empatico nella fase iniziale, mentre si chiude allo stesso modo condividendo i punti comuni e augurando il meglio.

Nel mezzo, la parte dal sapore meno gradevole, come abbiamo visto. Di zucchero ce n’è comunque in abbondanza, ma tolto quello rimane un messaggio chiaramente negativo.

Il tono

Giorgia Meloni si è sempre fatta conoscere per una presenza impetuosa. I suoi tonanti «io sono Giorgia, sono una madre» eccetera sono entrati nell’immaginario collettivo. Non sono altro che l’apice di anni (per non dire decenni) di comunicazione d’impatto, ad alto volume, di protesta.

Ne è un esempio la sua partecipazione a un comizio di Vox, partito di neofascista spagnolo. Lì il suo monologo contro il mondo LGBTQIA+, l’aborto, l’islam, gli immigrati e l’Europa ha mandato in visibilio gli spettatori.

Leggi anche: Meloni e le devianze, il video dello stupro e quel vecchio «Mussolini era bravo».

Ma ora che Fratelli d’Italia può passare da forza di opposizione a locomotiva del futuro governo, la comunicazione di Giorgia Meloni è cambiata. Si è fatta più moderata, istituzionale, comprensiva. Per certi versi, materna. Tutto pur di andare incontro all’elettorato cattolico e conservatore, così numeroso in Italia.

Ma, come scritto in precedenza, i politici si valutano sul campo, non sulle parole.

I fenomeni cognitivi

Il testo della Meloni sfrutta una grande quantità di fallacie logiche, bias cognitivi e tecniche retoriche. Vediamone una carrellata.

Slippery slope

Avviene quando si presenta la propria tesi come una concatenazione inevitabile di cause, unite in maniera arbitraria.

L’abbiamo visto in precedenza. Senza alcuna statistica o base scientifica Meloni parte da un presupposto arbitrario, ovvero che per crescere bene i bambini abbiano per forza bisogno di un padre maschio e di un madre femmina, piuttosto che di una famiglia amorevole a prescindere dal sesso dei suoi componenti. Su questo annette la sua esperienza di orfana di padre, applica una generalizzazione agli altri casi come il suo e motiva così, senza alcun nesso logico coerente, la sua contrarietà alle adozioni arcobaleno. Non si tratta di una catena causale corretta dal punto di vista logico.

Anchoring bias

Percepiamo meglio e fa più effetto ciò che ci viene detto per primo.

L’apertura del suo post è esemplare: fa i complimenti all’interlocutore ed empatizza con lui, questo lascia un alone che fa percepire il resto del messaggio come moderato quando, nei contenuti, non lo è.

Tone policing

Consiste nello spostare l’attenzione dagli argomenti al tono usato. In tal senso la tirata d’orecchi che inserisce nel finale è esemplificativa, quando parla di odio e del fatto che spera che un giorno Marco sarà capace di parlarne con lei con calma, sottintendendo che ora non lo sta facendo: tra le righe, gliene sta facendo una colpa.

Ma se parliamo di logica, le tesi altrui si battono con argomenti ed evidenze, non criticando il tono con cui gli altri si esprimono, cosa ininfluente a livello argomentativo.

Cherry picking

Significa selezionare gli esempi che confermano la propria tesi ignorando quelli che la confutano.

Il caso emblematico è quando usa il suo esempio personale quale “prova” della sua tesi ignorando le statistiche, che la smentiscono.

Straw man argument

O argomento fantoccio. Significa ragionare su un argomento ipotetico e simile a quello oggetto del dialogo – ma più facile da gestire – per poi trasferire il risultato sull’argomento originario.

La Meloni lo applica in maniera per niente velata quando invece di ragionare sulle coppie arcobaleno sposta il focus sulle famiglie monoparentali, che sono un obiettivo molto più semplice da criticare. Salvo poi trasferire le risultanze su tutte le famiglie con genitori diversi da un maschio e una femmina eterosessuali, senza alcuna distinzione, comprese quelle omosessuali, cosa molto scorretta a livello di logica.

False analogy fallacy

È una fallacia logica per cui se due cose sono simili in un aspetto, allora si presume che lo saranno anche negli altri. Cosa niente affatto automatica.

È un altro aspetto relativo allo straw man argument illustrato nel paragrafo precedente: assimilare le famiglie arcobaleno alle famiglie monoparentali sulla base del fatto che in entrambe c’è l’assenza di un genitore di sesso diverso dall’altro, ignorando tutte le altre enormi differenze – in primis il fatto in una ci sono due genitori e nell’altra uno solo – è un errore evidente: non sono la stessa cosa ed è errato mescolarle.

Texas sharpshooter fallacy

È la fallacia del cecchino texano, che prima spara col fucile sul tabellone e poi disegna i bersagli dove ha già sparato. In altre parole, è quando una persona con un gran numero di dati a disposizione si focalizza solo su alcuni e costruisce la sua tesi a posteriori.

Nel caso della Meloni si dà per scontato che per il lavoro che svolge sia a conoscenza di un gran numero di dati. Quantomeno, lo si presuppone su quelli relativi agli argomenti di cui parla, comprese le statistiche pubblicate dal governo statunitense in merito alle adozioni arcobaleno.

Non si tratta di scienza missilistica: ci si aspetta che un politico della sua levatura guardi i dati prima di esprimersi.

Queste statistiche smontano alla base il presupposto della sua tesi, ovvero che per crescere bene i bambini debbano vivere con una coppia eterosessuale: sono centinaia di migliaia le famiglie arcobaleno americane pronte a dimostrarlo.

Nonostante questo Meloni sceglie di non toccare mai l’argomento delle statistiche, perché disegnerebbero nuovi bersagli ben distanti dai proiettili che ha già sparato.

Loaded label fallacy

È una fallacia che si concretizza nel momento in cui si usa un linguaggio con un forte carico emotivo, piuttosto di portare prove ed evidenze a sostegno della propria tesi.

Dal riferimento al coraggio di difendere ciò in cui si crede (quando non c’è niente in cui “credere”, ci sono i dati), alla considerazione del sentimento di una coppia omosessuale al pari di una eterosessuale (una banale ovvietà, ma carica di emotività), fino all’uso di parole come rispetto, comprensione, calma, augurio, e di nuovo coraggio, e così via.

È una tecnica che funziona bene sul lettore meno attento. Rimane il fatto che non è caricando il proprio testo di emotività che si motiva la propria tesi sul piano logico. Anzi, è un tipico segnale di debolezza argomentativa.

La saga continua

Durante la scrittura di questo editoriale Giorgia Meloni ha pubblicato un altro post, in risposta a Luca Trapanese, padre adottivo di Alba.

Come vediamo la struttura è sempre la stessa, a sandwich, e il tono è il medesimo. Abbondano di nuovo le fallacie, come la loaded label (qui calca ancora di più la mano, sfruttando l’anchoring bias nell’incipit in maniera alquanto stucchevole), la false analogy tra coppie monogenitoriali e omosessuali, il cherry picking e le generalizzazioni (usa l’esempio di Luca e Alba ampliandolo a tutte le famiglie simili così come, di nuovo, sfrutta la sua vicenda personale, generalizzando).

Possiamo quindi notare che si tratta di un modus operandi: il sistema comunicativo viene ritenuto efficace, e quindi reiterato (addirittura estremizzandolo).

A livello argomentativo c’è una novità: le famiglie che vogliono adottare un bambino sono più dei bambini adottabili.

La domanda sorge spontanea: e allora?

In che modo questo dovrebbe permettere allo Stato di imporre famiglie di serie A e di serie B sulla base di una discriminazione di genere?

Perché, tra le righe, è questo che Giorgia Meloni sta affermando: se voi omosessuali volete una famiglia dovete mettervi in fondo alla fila, ma le coppie eterosessuali vengono sempre prima di voi. Voi venite dopo, valete meno, avete meno diritti ed è giusto così.

«Prima noi», dopotutto siamo sempre gli stessi. Solo con più zucchero.

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Giacomo Stiffan

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