Tutti conoscono, almeno per sentito dire, il fenomeno dell’adozione internazionale. Qualcuno di voi avrà adottato, qualcuno sarà stato/a adottato/a, altri avranno forse incontrato nella propria vita famiglie adottive o persone adottate. Pochissimi però sono realmente consapevoli di quanto sia delicato e complesso diventare genitori e figli con questa modalità, quando si tratta di percorrere migliaia di chilometri, anche in senso metaforico, per costruire una famiglia, perché l’adozione è un cammino di crescita individuale e di riconoscimento reciproco che dura tutta la vita.
Ne abbiamo parlato con Alessandra Pritie Maria Barzaghi, autrice del volume Le verità dei figli adottivi. Luci e ombre dell’adozione internazionale, nelle maggiori librerie online, edito da Scatole Parlanti.
Perché ha deciso di raccontare la sua storia e quelle di altre ragazze e ragazzi?
«In quanto figlia adottiva, che ha vissuto l’adozione sulla propria pelle, ho sempre avvertito l’esigenza di esprimermi a riguardo, finché non è diventata una questione impellente. Percepivo che la narrazione dell’adozione non solo era incompleta, ma sbilanciata a favore degli adulti. C’era uno squilibrio e c’era una grande assenza. Mancavano le voci degli attori principali dell’adozione, i figli adottivi.
Per molto tempo, non ho intravisto uno spiraglio per inserirmi, insomma i tempi non apparivano mai maturi per accogliere le voci dei protagonisti. La nostra realtà sociale è tuttora contraddittoria: un insieme di credenze arcaiche e convinzioni granitiche dure da scalfire, allo stesso tempo infarcito di facili slogan buonisti, ma anche di propositi veritieri di diffondere la cultura dell’inclusione.
L’adozione è riconosciuta come una modalità paritetica di formare una famiglia, eppure permangono resistenze rispetto ai vincoli non di sangue, la famiglia adottiva viene guardata con ammirazione e allo stesso tempo compatita. Il fatto è che il terreno dei legami familiari è fragile e delicato. A volte sono gli stessi operatori a muoversi con cautela per non apparire invadenti o insensibili. Ho assistito a tentativi di normalizzare a tutti i costi una condizione che non può essere accettata come naturale da chi la vive, minimizzare o sorvolare sugli aspetti dell’adozione che sollevano imbarazzi e si scontrano con tabù ancestrali, creare confusione nelle menti dei bambini adottati, ad esempio propinando storie edulcorate come quella delle due mamme, di pancia e di cuore.
Da madre adottiva, riscontro una serie di situazioni lasciate irrisolte (come il sentimento diffuso di diffidenza unito al minor riconoscimento sociale verso chi è portatore di differenze somatiche e ha un vissuto inconsueto). Le ho ritrovate nella fatica quotidiana di mia figlia a scuola e nella società. Mi duole percepire un peggioramento nella predisposizione all’accoglienza verso chi ha un aspetto difforme e una storia diversa, atteggiamenti che a volte sfociano nel bullismo, nel razzismo e nella tendenza ad assimilare l’adottato all’immigrato, negandogli lo status di cittadino italiano a tutti gli effetti. Ingenuamente, ero convinta che con la maturazione dei tempi e la diffusione della conoscenza si sarebbe pervenuti a una maggiore apertura mentale con la corretta interpretazione dell’adozione».
Da figlia adottiva a madre adottiva, quindi.
«Non sono molti i figli adottivi che diventano a loro volta genitori adottivi. Questa particolarità non mi è stata subito chiara, perché per molto tempo la narrazione dell’adozione è rimasta una prerogativa degli esperti. Mi sono poi resa conto che la mia esperienza di figlia adottiva, unita alla maternità adottiva, mi aveva donato qualcosa di prezioso: una duplice visuale sull’adozione da due prospettive diverse e per certi versi antitetiche.
Il progetto de Le verità dei figli adottivi. Luci e ombre dell’adozione internazionale è nato su questo presupposto e sulla convinzione che per evidenziare le fatiche e le sofferenze dei figli adottivi al fine di innescare un cambiamento fosse essenziale presentarle nel modo più ampio e completo possibile, cioè componendo una biografia di comunità, una raccolta di storie vere.
Per questo, nel libro, la mia vicenda compare soltanto in filigrana: il mio sentire rispetto all’adozione traspare dalle esperienze narrate dai contributori delle storie e dagli spunti di riflessioni contenuti nei miei approfondimenti. Le esperienze adottive non sono tutte uguali, i cammini dell’adozione possono coincidere a tratti, per poi differenziarsi, assumendo traiettorie stupefacenti o impensabili, e addirittura polarizzarsi.
Mi piace considerare Le verità dei figli adottivi. Luci e ombre dell’adozione internazionale come “un libro di lavoro”, una cassetta degli attrezzi progettata e messa assieme dai veri esperti dell’adozione, rifornita di tanti strumenti utili per comprenderne la complessità».
Il libro è dedicato ai figli adottivi, definiti come «equilibristi fra due mondi». Perché?
«Strappati alla loro terra d’origine, separati dagli affetti primari e da tutto ciò che era a loro noto nella prima infanzia – lingua, usanze, suoni, profumi, immagini – i figli adottivi devono affrontare molte fatiche, tra le quali la questione più onerosa è quella identitaria. La certezza rispetto a ciò che si è costituisce infatti il fondamento del benessere personale. I figli adottivi si trovano a dover ricomporre, spesso con le sole risorse personali, i frammenti di ciò che erano prima dell’adozione, conciliando questo duro compito con le richieste imposte dalla nuova realtà, un mondo quello odierno già di per sé complicato per chi ci nasce.
Vivono una situazione nella quale si sono ritrovati catapultati dall’oggi al domani, senza averlo chiesto o scelto, senza aver avuto voce in capitolo, e per la quale è impossibile essere preparati. Non lo sarebbe per un adulto che avrebbe gli strumenti per comprenderla, non lo è per niente per chi è nell’età di maggior fragilità, l’infanzia.
Quando subentra la consapevolezza di essere stati adottati e soprattutto nella fase dell’adolescenza, dove le emozioni diventano esplosive, i figli adottivi si trovano a dover rinegoziare l’appartenenza a due mondi, il prima e il dopo. Non sapere a chi si appartiene veramente è qualcosa che confonde e addolora e non per tutti è una questione risolvibile nel breve tempo».
Il suo è stato uno dei primi casi di adozione internazionale nel nostro Paese, addirittura preso in considerazione anche dalla stampa. Pensa che oggi ci sia abbastanza informazione riguardo al fenomeno dell’adozione internazionale?
«Ritengo che in cinquant’anni siano stati compiuti apprezzabili passi avanti nella consapevolezza di cosa è l’adozione. Lo dobbiamo al lavoro di tante persone illuminate, volenterose e sensibili. Pubblicazioni, siti di informazione, convegni di settore, le notizie e le risorse circolano, sono a portata di mano per chi è dotato di buona volontà e desidera conoscere e approfondire.
Il fatto è che l’adozione è vista come un argomento di nicchia ed è proprio questa convinzione a ostacolare la diffusione della cultura dell’adozione. Ma i figli adottivi sono ormai numerosi e a chiunque può capitare di venire a contatto con persone alle quali il destino ha riservato questa peculiarità. Dovrebbe essere uno dovere precipuo di tutti prepararsi a tale eventualità, proprio perché lo Stato italiano da ben quarant’anni ha inserito l’istituto giuridico dell’adozione nel diritto di famiglia.
Il vuoto di conoscenza è responsabile di molte delle difficoltà ed esperienze dolorose vissute dalle persone adottate in questo Paese. Le verità dei figli adottivi vuole contribuire a colmare questa lacuna, essere l’inizio di un lungo e paziente lavoro di sensibilizzazione della società rispetto alle fatiche dei figli adottivi, ai quali restituisce il ruolo che spetta loro, quello di veri protagonisti, degni anch’essi di ascolto.
Tuttora, in ciò che sta a monte e a valle di un’adozione, l’ago della bilancia pende verso le esigenze degli adulti: il desiderio di diventare genitori, magari per rimediare a un vuoto procreativo, e gli aspetti pratici dell’iter adottivo e dell’inserimento scolastico. Il punto di vista del bambino e le sue emozioni spesso contraddittorie, che generano fraintendimenti per mancata conoscenza, hanno una valenza secondaria: c’è ancora troppa facilità nel ritenere che l’esperienza traumatica dell’abbandono si possa risolvere tout court con l’adozione, cioè nel semplice atto di accogliere un bambino in difficoltà.
L’adozione stessa è un trauma per il bambino, e con l’adozione prende avvio un nuovo intricato capitolo nella sua vita, una condizione che porterà con sé per tutta la vita».
Riguardo ai pregiudizi, le cose sono cambiate dalla sua adozione ai giorni d’oggi? Essere adottati/e può essere fonte di bullismo e discriminazione?
«Come accennavo prima, per certi versi, sono peggiorate. Quando nel 1969 sono giunta in Italia, ero considerata una singolarità. Il mio caso ha suscitato curiosità, entusiasmo e benevolenza. Già allora, però, si partiva male, con la convinzione che dopo un periodo congruo un bambino si adatta alla nuova situazione e apprende in fretta gli strumenti necessari per mettersi in pari.
In condizioni normali può essere vero, ma non per chi arriva con un carico di traumi (abbandono magari ripetuto, assenza di affetti, cure e persone di riferimento, istituzionalizzazione e a volte maltrattamenti). Questo concetto fuorviante è stato duro da scardinare e ancora capita che i traumi restino invisibili o vengano sminuiti appiccicando l’etichetta di fortunato al bambino adottato.
Oggi per i figli adottivi si aggiungono nuove sfide legate ai mutamenti dei tempi e a questioni di natura sociale e antropologica. Pensiamo allo stigma verso gli immigrati, rivolto anche ai figli adottivi con diversità somatiche. Recentissimo è l’articolo di un noto periodico che definisce l’atleta Yeman Crippa – adottato da una famiglia italiana – un italiano di seconda generazione, invece che italiano a tutti gli effetti. Insomma, c’è ancora molta confusione e scarsa conoscenza di chi è realmente la persona adottata, e attorno ai diritti che gli derivano per legge. I figli adottivi continuano a riportare episodi di bullismo a scuola e di razzismo in società, segno evidente che ci stiamo avviando verso un’involuzione preoccupante, nonostante la scolarizzazione diffusa e le possibilità di conoscenza agevolate dalla tecnologia».
Secondo lei, i figli adottivi hanno il diritto di sapere la loro storia? Il genitore adottivo come deve porsi a riguardo?
«Certamente hanno il diritto di scoprire le loro radici, ma questa possibilità deve in primis scaturire da una loro esigenza personale. Mi capita di sentire storie di genitori ossessionati dalla rivelazione, cioè dal momento in cui dovranno comunicare ai loro figli di essere stati adottati, bruciano le tappe informandoli in tenera età, senza una richiesta effettiva da parte del bambino e con conseguenze deleterie.
Ritengo che questo fenomeno sia dovuto a una problematica irrisolta del genitore che si colpevolizza inconsciamente rispetto alla propria infecondità con l’esigenza di ricordare a se stesso di non aver generato quel figlio. Ci sono ancora genitori restii a parlare di adozione e ad accompagnare il figlio nel viaggio alle origini, ma è vero che questa chiusura appartiene più al passato.
Oggi c’è una buona offerta di corsi post adozione e gruppi di mutuo aiuto per assistere i genitori in queste fasi delicate, quando la paura infondata di essere disconosciuti, o che il figlio mostri ingratitudine, prende il sopravvento. Nell’ambiente scolastico e nella società permane una certa ritrosia a parlare di adozione perché solleva imbarazzi rispetto a una condizione sfavorevole che appartiene a una piccola minoranza. Ma è proprio questa mancanza di dialogo a far sentire i figli adottivi degli outsider, degli individui di minor valore o addirittura menomati dalla vita».
Pensa che anche i genitori adottivi debbano in un certo senso “fare pace” con i sentimenti che si provano verso i genitori biologici?
«Ritengo che per prima cosa i genitori adottivi dovrebbero evitare di incorrere nell’errore narcisistico tipico di tanti genitori naturali, di considerare questi figli come propri, come un’estensione di sé, magari assimilandoli ai figli naturali che non hanno potuto generare.
Se ci si mette di mezzo il possesso, difficilmente ci sarà la giusta sensibilità a tener conto del passato del figlio, un passato del quale il genitore adottivo non ha fatto parte e di cui spesso conosce poco o nulla. Non serve decidere di ignorare questa parte di esistenza, anzi, è una grave disattenzione considerare soltanto l’esperienza di vita del figlio formatasi dopo l’adozione, se non una forma egoistica dove si tende a dare valore soltanto a ciò che fa sentire meglio, mentre si rifuggono gli aspetti dolorosi.
Non è mancanza d’amore – sono certa che la maggior parte dei genitori adottivi provino molto affetto per i loro figli venuti da lontano – è una forma di debolezza, la paura dello sforzo di apertura e rimodulazione di sé che il genitore adottivo è chiamato a fare nel momento in cui diviene tale. Adattarsi alla nuova situazione creata con l’adozione non deve essere un’incombenza esclusiva del figlio adottivo.
L’adozione è un percorso, a volte spinoso, a volte più fluido, che coinvolge tutta la famiglia, è un cammino di crescita e maturazione che arricchisce e può donare esperienze meravigliose a entrambe le parti, purché ci sia la predisposizione ad accogliere incondizionatamente i bisogni reciproci per far funzionare un rapporto così unico e speciale».
Si vive in una continua ricerca anche quando si conosce la propria storia?
«Conoscere le proprie origini non significa essere pronti ad accettarle nell’esatto momento della scoperta, quando si hanno in mano i risultati della ricerca. La strada verso la guarigione dalle molte ferite emotive subite da bambini è lunga: è fatta di tante tappe dolorose, di pensieri ruminanti e contraddittori, di tentativi di mettere ordine nel proprio passato, di dare un senso a un qualcosa che forse un senso non ne ha, è costellata di ansie e preoccupazioni rispetto al viaggio, prima immaginato e poi, ma non sempre, agito.
C’è la paura della scoperta, di provare emozioni sconvolgenti, di minare un equilibrio che si riteneva conquistato. Il viaggio effettivo può essere una semplice conferma di ricordi e sensazioni infantili, oppure può portare a scoprire l’esistenza di superstiti della famiglia originaria, e allora scatena domande, a volte prive di risposta, sul perché si è stati i prescelti, gli unici a essere allontanati dal nucleo famigliare.
Anche ottenuto di conoscere la propria storia preadottiva, i figli adottivi la rivisitano di frequente nei loro sogni e nei pensieri, in un cammino verso il consolidamento della consapevolezza che non finisce mai, perché l’adozione è una condizione che si porta con sé per sempre».