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La sottile linea rossa tra democrazia e autocrazia elettorale

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Giacomo Stiffan

Siamo abituati a far coincidere l’idea di democrazia liberale con le elezioni. Semplice, lineare. E del tutto sbagliato.

Non bastano le elezioni per avere la garanzia che ci troviamo in una democrazia, ci sono dei prerequisiti fondamentali che vanno oltre questo aspetto. In Europa, ad esempio, sono individuati dai trattati che hanno dato vita all’Unione, sottoscritti dai Paesi membri. Questo però non significa che vengano rispettati da tutti.

Il caso ungherese

Il Parlamento europeo ha deliberato che l’Ungheria di Orban «non è una democrazia», come ha affermato Gwendoline Delbos-Corfield, la relatrice del testo, approvato con una larga maggioranza.

La richiesta del Parlamento è che l’Ungheria ridia piena attuazione ai valori europei presenti nell’articolo 2 del trattato sull’Unione europea e individua molte aree di criticità nel Paese governato da Orban. I problemi sono afferenti, nel dettaglio, ai seguenti temi:

  • il funzionamento del sistema costituzionale e del sistema elettorale;
  • l’indipendenza della magistratura e di altre istituzioni e i diritti dei giudici;
  • la corruzione e i conflitti di interesse;
  • la tutela della vita privata e la protezione dei dati;
  • la libertà di espressione, la libertà accademica, la libertà di religione, la libertà di associazione;
  • il diritto alla parità di trattamento;
  • i diritti delle persone appartenenti a minoranze – compresi i rom e gli ebrei – e la protezione dalle dichiarazioni di odio contro tali minoranze;
  • i diritti fondamentali dei migranti, dei richiedenti asilo e dei rifugiati, i diritti economici e sociali.

Una democrazia svuotata

L’Ungheria è stata definita un «regime ibrido di autocrazia elettorale». Ovvero una democrazia svuotata, nella quale da una parte si tengono le elezioni ma dall’altra un gruppo di potere è in grado di mantenersi al vertice senza aver bisogno di truccare le elezioni, auto-alimentando il consenso verso sé stessi grazie all’accentramento dei poteri, all’implementazione di leggi liberticide e al controllo dei media. Si tratta quindi di consenso reale, ma creato in maniera artificiale.

Leggi anche: Orbán detta i cinque pilastri del sovranismo

Chi comanda, quindi, influisce sulle elezioni per via indiretta, a monte, inquinando il dialogo democratico e tappando la bocca alle voci contrarie. Questo avviene, ad esempio, grazie a mass media schierati, all’impossibilità dell’opposizione di ottenere giustizia in tribunale, alla limitazione del dissenso attraverso la compressione delle libertà individuali.

La risposta europea

Non è detto che la presa di posizione del Parlamento europeo si tradurrà in qualcosa di concreto. Si tratta di una decisione non legislativa, che quindi non avrà per ora ricadute dirette. Funge più che altro da raccomandazione al Consiglio e alla Commissione affinché predispongano adeguate contromisure, per esempio il congelamento dei fondi del Pnrr per l’Ungheria.

Il concetto è semplice: chi non attua i valori europei non ha diritto ai soldi europei.

A tal proposito, il Parlamento ha dato una tirata d’orecchi alla Commissione. Ad aver aggravato la situazione sarebbe stata proprio l’inazione delle istituzioni comunitarie, che non sono intervenute per tempo quando il fenomeno era ancora arginabile con facilità. Ora, invece, il problema ha assunto dimensioni tali da richiedere misure più dure.

Ma non tutti i Paesi del mondo hanno un’Europa pronta a intervenire in caso di derive autocratiche.

La Turchia

Qualche decennio fa sembrava che la Turchia avesse intrapreso un percorso di occidentalizzaione, tanto che si vociferava di un suo progressivo ingresso nell’Unione europea.

Ma l’avvento di Recep Tayyip Erdogan ha dimostrato quanto la democrazia sia un sistema delicato, che ha bisogno di essere protetta e mantenuta efficiente.

Leggi anche: EUwise: l’adesione di nuovi Stati all’Unione europea.

Nel caso turco nessuno ha la capacità di influire dall’esterno affinché venga garantito un corretto svolgimento del dialogo democratico, come nel caso ungherese con l’Europa. Né minacciando azioni di forza (la Turchia è il secondo esercito per dimensione all’interno della Nato, di cui è membro), né con incisive azioni diplomatiche, come ad esempio delle sanzioni (la Turchia è spesso l’ago della bilancia nell’esplosivo scacchiere mediorientale e ha un ruolo cruciale per l’Europa sotto molti aspetti, dall’energia all’immigrazione).

Dal punto di vista formale è una repubblica presidenziale: questo a seguito della riforma di Erdogan del 2017 che ne ha modificato l’ordinamento. Si tratta di un presidenzialismo spinto, nel quale il capo dello Stato ha ampi poteri sugli altri apparati statali, poteri che utilizza senza tanti scrupoli e gli permettono di agire con mano libera su ogni aspetto del funzionamento dello Stato .

Il golpe

La riforma fece seguito al tentato golpe del 2016, nel quale una parte delle forze armate turche tentò di rovesciare il regime di Erdogan.

La genesi di questo tentato golpe è però nebulosa. Alcuni analisti hanno ipotizzato un colpo di Stato raffazzonato, messo in piedi all’ultimo per anticipare le mosse accentratrici che Erdogan avrebbe implementato di lì a poco.

Altri hanno ipotizzato che si sia trattato di un false flag, un’operazione organizzata dallo stesso Erdogan per avere mano libera nel consolidamento del suo potere attraverso due interventi: la già citata riforma presidenziale e le purghe ai danni dei vertici militari e giudiziari ostili al regime e “coinvolti” nel golpe.

Quale che sia la sua origine, entrambi gli obiettivi sono stati raggiunti.

Il passaggio da un orientamento democratico all’autocrazia elettorale – nella quale si tengono ancora le elezioni – è avvenuto in un tempo relativamente contenuto e in un Paese che fino a poco prima era considerato capace di tendere a standard liberali occidentali pur essendo immerso nella delicata situazione mediorientale.

La Russia

Anche in Russia si tengono le elezioni, ma non per questo è una democrazia.

Come per Erdogan, nel caso di Vladimir Putin non esiste alcun organismo sovranazionale che possa mettere bocca sull’ordinamento dello Stato. Non solo, la Russia ha un seggio permanente (quindi con potere di veto) all’interno del consiglio di sicurezza delle Nazioni unite.

Il controllo di Putin sugli apparati statali è totale, nonostante i rischi di ribellione non siano azzerati.

In questa (remota?) eventualità, con ogni probabilità non si tratterebbe di un’insurrezione popolare quanto di una destituzione operata dagli oligarchi. Una professione nella quale il rischio di “essere suicidati” è elevatissimo, come raccontano anni di articoli su cadute dalle finestre e da vari altri luoghi elevati. Sintomo, questo, che Putin percepisce benissimo che la sua posizione al vertice rimane tale solo finché riesce mantenere il controllo grazie alla paura che è capace di incutere, sia verso l’interno che verso l’esterno. E, quando la paura non funziona, con l’eliminazione fisica degli oppositori, elemento discriminante tra il caso russo e quello ungherese (regime che non arriva a tanto).

Un modus operandi, quello di Putin: quando si legge di un oligarca caduto da una finestra si sa benissimo chi è il mandante, senza bisogno di alcuna presa di responsabilità palese.

L’opposizione e la stampa

La firma può cambiare quando si tratta di giornalisti e oppositori politici. La Russia mantiene infatti un simulacro di opposizione. Non c’è il partito unico, come ad esempio in Cina, e le elezioni si tengono regolarmente con la presenza dei partiti di minoranza. Ma, come vedremo, sono elezioni svuotate di ogni significato democratico.

La Russia mantiene anche un parvenza di libertà di stampa, che però nulla ha a che fare con una vera attuazione della libertà di espressione.

Il concetto è semplice. Finché non dai davvero fastidio puoi esprimerti. Ma se esageri preparati al peggio: la prigione quando va bene (emblematico il caso delle Pussy Riot), l’assassinio quando va male.

Leggi anche: Master of puppets: Putin e la destra italiana.

In questi casi la classica firma russa è l’avvelenamento, di solito con l’uso di sostanze radioattive o agenti nervini come il novichok. Non sempre si tratta di veleni che uccidono con rapidità. A volte l’obiettivo non è l’eliminazione fisica dell’oppositore, quanto piuttosto dare un segnale a chi lo sostiene.

Così – talvolta – la vittima sopravvive. Non senza terribili conseguenze sul fisico e un’aspettativa di vita drasticamente ridotta. Ne sa qualcosa Alexei Navalny, oppositore politico prima avvelenato, poi curato in Germania e successivamente tornato in Russia, conscio che sarebbe stato messo in prigione (cosa che è avvenuta).

Se la prigione e il veleno non sono sufficienti a piegare la volontà del bersaglio e dei suoi sostenitori si passa alle esecuzioni in stile mafioso. Come accaduto alla giornalista Anna Politkovskaja. Era già sopravvissuta a un tentativo di avvelenamento, un paio di anni prima della sua morte a colpi di pistola di fronte all’ascensore di casa sua, nel 2006.

Dopo il suo omicidio la stampa russa non fu più la stessa. «Colpirne uno per educarne cento», come diceva Mao Tse Tung, non certo un emblema di libertà.

«È così che muore la libertà: sotto scroscianti applausi»

La democrazia liberale è una creatura tanto luminosa quanto fragile.

Viviamo da più di settant’anni in una democrazia nella quale – nel bene e nel male – siamo i fautori del nostro destino. Siamo noi, con il nostro voto, a decidere chi ci rappresenta. Ma attenzione: le autocrazie non nascono più grazie ai colpi di Stato, a rivoluzioni di popolo o a marce sulle capitali.

Quella è roba da Novecento.

Al giorno d’oggi tutto ruota intorno al consenso. Quando si crea un sistema nel quale il consenso alimenta il potere e il potere alimenta il consenso, il cerchio si chiude e la presa sul Paese è stabile.

Una minoranza dissidente è tollerata – purché piccola e poco rumorosa – quale “dimostrazione” di non essere una dittatura. Ma la maggior parte dei cittadini approva, e non si rende conto di vivere con la testa sotto uno stivale.

Sono manipolati, convinti che quello in cui si trovano sia il sistema migliore. L’unico che li tutela da minacce costruite ad arte (immigrati, lobby Lgbt, musulmani, ebrei, poteri forti…), l’unico che garantisce loro prestigio internazionale (inculcato attraverso una pervasiva stampa di regime, mentre la realtà è che si viene isolati dai Paesi liberi), l’unico che non lascia indietro nessuno (e poco importa se ad arricchirsi in maniera vergognosa è solo il gruppo al potere).

Nonostante sia imperfetta, dannatamente costosa e lenta nel prendere le decisioni, la democrazia liberale è la miglior forma di governo che l’umanità sia mai stata in grado di realizzare nel mondo reale.

È l’unico sistema che dà al popolo le redini. L’unico che garantisce i diritti di tutti i cittadini (anche se su questo c’è sempre da lavorare). È l’unico che dà libertà vera a tutti, anche a chi la vorrebbe togliere agli altri.

Non diamola mai per scontata.

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Giacomo Stiffan

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