«Il mio intento era quello di dare tranquillità alla collettività, dicendo qualcosa come: “State tranquilli, c’è un gruppo di Ragazzi che, avendo fatto (e continuando a fare!) tanti sacrifici, è pronto a partire in trenta minuti per risolvere questioni difficili!”» dice orgoglioso della sua squadra il Comandante Alfa, dietro il suo mephisto.
Dopo il grande successo di Cuore di rondine (2015), recentemente è uscito in tutte le librerie per Longanesi l’ultimo libro del Comandante Alfa, Parola d’ordine: proteggere.
Luogotenente dell’Arma dei Carabinieri, il Comandante Alfa è stato uno dei membri fondatori del Gis (Gruppo di Intervento Speciale) dell’Arma dei Carabinieri. Attualmente è considerato il carabiniere più decorato d’Italia.
Oggi theWise Magazine lo ha incontrato per voi.
Perché ha metaforicamente deciso di togliere il mephisto e di raccontarsi?
«Ho fatto questa scelta perché volevo che la gente venisse a conoscenza del nostro reparto, che secondo me è più conosciuto all’estero che in Italia. Ho scritto il mio primo libro in un momento particolare: il terrorismo islamico era in piena operatività e c’era il timore che noi stessi saremmo potuti divenire bersagli. Il mio intento era quello di dare tranquillità alla collettività, dicendo qualcosa come: “State tranquilli, c’è un gruppo di Ragazzi che, avendo fatto (e continuando a fare!) tanti sacrifici, è pronto a partire in trenta minuti per risolvere questioni difficili!”.
Era poi un messaggio di speranza e di incoraggiamento ai giovani. Un ragazzo come me, un giovane scapestrato partito dal profondo Sud con un sogno nel cassetto, è riuscito a raggiungerlo!».
Essere dentro alla Storia, ma non poterlo raccontare a nessuno. Come si sente ad aver partecipato in prima persona la Storia recente del nostro Paese?
«Orgoglioso di me stesso per essere stato uno dei fondatori del Gruppo Intervento Speciale, della mia famiglia che mi ha sempre sostenuto e dei Ragazzi. Su di noi, all’inizio, nessuno avrebbe scommesso, invece siamo diventati un reparto d’élite famoso in tutto il mondo. Il nostro compito, al di là di tutto, era quello di aiutare persone che prima del nostro intervento si trovavano in serio pericolo e stavano soffrendo».
Nonostante il grande addestramento, esiste la paura?
«Più che paura, la definisco tensione, adrenalina, preoccupazione. Il coraggio è proprio superare questo momento. Si supera sì con l’addestramento, che ti permette di essere veloce e preciso, ma anche sapendo che sei circondato di uomini che sono pronti a sacrificare la propria vita per difendere la tua. Noi siamo colleghi, ma soprattutto amici, un gruppo di fratelli che remano tutti nella stessa direzione. Tutti leali e sinceri, fatto fondamentale per i reparti speciali. Quando hai bisogno, sai sempre che c’è qualcuno pronto ad aiutarti».
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Nei suoi libri parla spesso di «più sudore, meno sangue». Insomma, catturare vivi. Cosa significa?
«Il nostro obiettivo è sparare il meno possibile. Come dicevo, l’addestramento è importantissimo perché ti permette di non lasciare tempo di reazione al nemico. Prima di essere operatori del Gis, siamo carabinieri. Il carabiniere non è un giustiziere, ma una persona pronta e disponibile ad aiutare chi ha bisogno.
“Più sudore, meno sangue” lo diceva sempre il mio primo comandante. Significa avere rispetto del nemico ed essere professionisti esemplari. Noi dobbiamo solamente assolvere il nostro compito, dopodiché la pena da dare in base al reato è compito dei giudici. Rendiamo il nemico innocuo e lo consegniamo alla giustizia. Il nostro dovere finisce lì. La violenza gratuita non esiste.
Più ti addestri e più ti impegni, e quindi più sudi, automaticamente sparerai di meno, perché sarai più veloce e preciso. Solo se costretti si combatte. La differenza si fa risolvendo le questioni difficili senza sparare. Entrare e sparare è molto facile, catturare vivi e avere rispetto è molto difficile. Il nemico sa che, quando interviene il Gis, il reparto avrà comunque rispetto di una persona che ha fatto la scelta di stare dalla parte del male».
La sua professione le ha fatto fare anche tante rinunce a livello personale e famigliare.
«Sono sincero: l’unico rammarico che ho è quello di non essermi vissuto l’infanzia dei miei figli. Tutto quello che ho fatto, lo ho fatto con il cuore. Ho avuto una vita professionale entusiasmante grazie all’Arma dei carabinieri, alla mia famiglia e a tutti gli operatori del Gis. Da soli, non si fa nulla!
Un po’ anche grazie a me stesso, devo dirlo, attraverso rinunce e sacrifici, come quello di non avere una identità. Ho finito la carriera nel mio reparto, che amo ancora. Quarantasette anni di servizio, di cui quasi quaranta nel Reparto, non si scordano. Il Gis ha fatto parte della mia vita, il Gis è la mia vita».
Nel suo ultimo libro racconta della sua esperienza come operatore nella scorta dei VIP. Come funziona questo incarico, soprattutto dal lato umano?
«La relazione è tutto. Bisogna che il vip capisca che lui o lei è l’obiettivo, ma che tu operatore sei parte stesso dell’obiettivo. Non solo bisogna proteggere il vip, ma bisogna proteggere sé stessi e i colleghi. Certamente, quando ho protetto gli uomini più potenti del mondo, spesso non c’è stato il tempo di entrare in simbiosi. Dopo più volte, il personaggio capisce che ha al fianco una squadra di super professionisti.
Con il magistrato Nino Di Matteo ho imparato tanto, mi ha completato come operatore di protezione per personaggi importanti. Con lui sono stato tre anni e siamo diventati amici. Di Matteo sapeva che stava rischiando, ma sapeva che stavamo rischiando anche noi. Tutto ciò che gli dicevo di fare, lo faceva perché si fidava.
Se si trova un personaggio intelligente, che lascia esprimere la tua fantasia e la tua professionalità, allora diventa un lavoro entusiasmante e divertente nello stesso tempo. Il destino ha voluto che facessi questo servizio, senza mai dimenticare quello che è successo a chi è caduto assolvendo questo compito. Mi riferisco agli uomini di Falcone, di Borsellino, del generale Dalla Chiesa, di Moro. Questi, purtroppo, vengono ricordati solo nel momento dell’anniversario della loro morte».
Come ha vissuto il passaggio da incursore ad addestratore?
«La soddisfazione è quasi la stessa. “Godersi” l’operazione è differente. Da incursore, l’operazione dura pochissimi secondi, il giorno dopo te la se quasi dimenticata, perché ne stai aspettando un’altra. Da istruttore segui tutto l’iter di preparazione e, quando partono, ti senti come loro papà. Proprio come quando aspetti tuo figlio che per la prima volta va in discoteca. Non dormi perché aspetti il ritorno.
Forse l’operazione è più vissuta da istruttore, perché si seguono passo dopo passo le fasi che portano alla riuscita dell’operazione, trasmettendo tutta la tua esperienza. Quando insegni, tornano alla mente tutte le operazioni che nel passato hai fatto realmente. Sai che quando la spieghi, la spieghi nei minimi particolari. In un reparto speciale sono sempre i dettagli a fare la differenza!».
Qual è il suo messaggio per i giovani?
«Il destino sceglie dove iniziano le nostre vite, ma poi sta a noi. Avendo avuto un’infanzia abbastanza difficile, in un luogo altrettanto difficile, questo è il messaggio che lascio. C’era una linea sottile che divideva il bene dal male ed era più facile prendere la seconda via. Ai giovani dico di non mollare mai. Non esistono obiettivi irraggiungibili, bisogna solo credere fortemente in sé stessi, senza arrendersi alla prima difficoltà».