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«Dobbiamo tornare a parlare alla gente e superare le correnti», ci dice l’On. Morassut (Pd)

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Giulia Rocchetti

L’on. Roberto Morassut, esponente di primo piano del Partito Democratico, è tra i pochi eletti ai collegi uninominali per il suo partito. In particolare, è l’unico candidato del Pd ad aver vinto in un collegio uninominale da Firenze in giù, fino alla Sicilia. Lo abbiamo incontrato in una sede insolita (un tavolino di un bar, al Pigneto, un quartiere popolare di Roma) per un commento sulle elezioni e sul futuro del Paese.

Com’è essere un vincente in un partito che ha perso le elezioni?

«Sono orgoglioso del lavoro fatto nel corso di questa veloce campagna elettorale, ma mi addolora il risultato complessivo del Pd e della coalizione, che non è andato bene, soprattutto a livello territoriale. Era prevedibile dato che la coalizione era ristretta, non il campo largo che avevamo immaginato».

Quale pensa sia la ragione del suo risultato personale?

«Un primo elemento è la straordinaria mobilitazione che si è determinata tra i nostri militanti, che hanno collaborato per raggiungere un risultato in questo collegio. Un collegio che, peraltro, aveva quasi sempre votato a sinistra: c’è stato un moto d’orgoglio nel difendere una postazione. Il secondo elemento è stata la valutazione sulla mia persona da parte degli elettori. Se ho ottenuto quasi il 10 per cento dei voti sulla persona e non sulle liste è per il radicamento che ho in quel territorio – che mi è molto caro, perché ci sono nato e cresciuto – e per come la gente mi ha percepito nel corso degli anni. Non ho operato nel partito secondo una logica di corrente, sono sempre stato una persona libera e ho mantenuto il contatto con le persone anche quando non c’erano voti da chiedere».

Molte persone percepiscono il Pd come un partito scollato dalla realtà. Il radicamento sul territorio manca su scala nazionale?

«È innegabile che nel tempo l’elemento di collegamento con il territorio si sia scolorito. Anche il modo in cui abbiamo formato le liste è stato controproducente. I nostri più importanti dirigenti sono stati candidati tutti nel proporzionale, mentre sarebbero dovuti andare nei territori di riferimento, pur mantenendo anche una protezione sul proporzionale. Invece alcuni da una regione sono stati mandati in un’altra e questo ha dato ancor più l’impressione di una classe dirigente scollata dalla realtà».

Il target della sinistra è cambiato. Gli operai, che una volta la votavano, oggi scelgono Salvini e Meloni. Sembra che il Pd abbia difficoltà a creare un dialogo con i ceti popolari…

«Questo cambio è dipeso da circostanze oggettive, perché in Italia non c’è una destra conservatrice, bensì sovranista. Questo ci ha costretti a fare per troppo tempo “l’ambulanza”, interpretando politiche finanziarie restrittive. Se non l’avessimo fatto l’Italia non esisterebbe più, ma abbiamo pagato un prezzo altissimo. Siamo diventati un partito molto più chiuso e troppo abituato al potere. Questo ci ha allontanato sia dai territori sia dalle classi sociali di riferimento, che sono diventate preda dei populismi di turno. Ampie fasce di proletariato urbano – un’espressione che sembra ottocentesca, ma che è tornata attuale – hanno perso la loro rappresentanza politica naturale e si sono rivolte altrove. Sono condizioni che si sono verificate anche nel resto d’Europa. Nel 2016, per esempio, lo storico complesso popolare di Vienna Karl-Marx-Hof – creato dai Socialdemocratici negli anni Venti – votò a destra, per poi volgersi nuovamente a sinistra. In Italia però questa condizione si è cronicizzata e noi dobbiamo ripartire con una riflessione profonda su cosa siamo e dove vogliamo stare».

Cosa intende fare il Pd per tornare a rivolgersi a quei ceti?

«Dobbiamo riaggiornare il modo di rapportarci alla società, seguendo le sue evoluzioni. Sono ancora importantissimi i temi del lavoro e della giustizia sociale, perché con la crisi finanziaria, il Covid-19, la crisi ambientale e la guerra – che ha introdotto il problema dell’approvvigionamento energetico – siamo entrati in una spirale che ha spaccato la società accentuando vecchie ingiustizie e creandone di nuove. Per questo in Italia il termine “democratica” è il più giusto per definire la sinistra, perché unisce i diritti individuali e i diritti collettivi, che hanno viaggiato per troppo tempo su binari separati. Noi oggi dobbiamo tenere uniti questi due versanti, mantenendo nella sostanza il tema di lotta alle ingiustizie sociali. Chiamarci Democratici è oggi più che mai un’idea giusta».

Secondo lei tralasciare il sostantivo e concentrarsi sull’aggettivo (non più “partito democratico”, ma “Democratici”) può favorire una rigenerazione del partito?

«Sì, ci vuole anche un’operazione estetica, perché l’estetica in politica porta con sé contenuti. Sono un uomo di partito e non ho mai smesso di alimentarlo frequentando le sezioni e i circoli. Per me “partito” è una parola amatissima, ma porta con sé una serie di idee che sono ostative – sia dall’esterno che dall’interno – a una fase di movimento. All’interno, il termine partito rispecchia il nostro funzionamento correntizio, che ostacola la creazione di una nuova classe dirigente. All’esterno ci fa apparire arroccati, mentre dobbiamo aprirci».

Dati alla mano, molti hanno osservato che, tra le possibili alleanze del fu campo largo, il Pd abbia scelto la peggiore. Lei cosa ne pensa?

«Il campo largo è stata una scelta perseguita con convinzione, Letta ci ha provato fino alla fine, ma a un certo punto è stato Carlo Calenda [segretario di Azione e leader del “Terzo Polo”, ndr] a rompere. La verità però è che il campo largo non è mai esistito, perché può esistere solo a condizione che vi sia un Pd forte. Come ho detto in direzione nazionale, da dieci anni il Pd “non cresce e non crepa”, restando oscillante in una forbice tra il 19 e il 23 per cento. Per fare un campo largo ci vuole una forza centrale riformista al 25 per cento in grado di esercitare una funzione egemonica sui suoi alleati e di influenzare larghe fasce di elettorato. Non bisogna agire in base alle alleanze, cioè in virtù di quali sono i nostri interlocutori politici esistenti. Noi abbiamo fatto un’alleanza con Sinistra Italiana e i Verdi perché erano gli alleati disponibili con i quali c’era più sintonia, però dobbiamo pensare alla nostra funzione di partito popolare nazionale».

Carlo Calenda. Foto: Flickr.

Le donne sono circa il 30 per cento sul totale degli eletti nel Pd. Come si spiega questo dato e come pensa possa essere migliorato?

«Noi evochiamo valori che a volte non siamo in grado di concretizzare perché il meccanismo del partito – per questo dico che superare la parola partito non è solo una formalità – è prigioniero di un correntismo esasperato. Più del valore della persona pesa la sua appartenenza a una corrente dentro sistemi di potere verticale. Le donne sono state messe in gran parte in collegi uninominali a perdere, e siccome le correnti non hanno abbastanza ceto politico al femminile al loro interno hanno espresso un ceto politico maschile. Anche il governo presieduto da Mario Draghi aveva tre ministri uomini e qualche sottosegretaria, perché i leader delle correnti sono maschi. Superare questo correntismo deteriore è il primo passo per migliorare la situazione».

Quindi lei è favorevole a un congresso immediato?

«Io vorrei una costituente, che già chiesi nel 2016 dopo una tornata elettorale amministrativa disastrosa che avvenne a soli due anni dal trionfo del 2014 con l’ex segretario Matteo Renzi. Volevo riprendere quello che era stato interrotto nel 2010 dopo le dimissioni dell’ex segretario Walter Veltroni per costruire un nuovo soggetto politico. Però, da allora, il dibattito interno è rimasto sordo: oggi siamo in una condizione di estrema difficoltà ed è tornato il termine “costituente” al centro del dibattito, ma bisogna intendersi, perché rischiamo di chiamare costituente una cosa che non lo è».

Cosa intende per “costituente”?

«Per prima cosa vanno cambiate le regole dello statuto, che ci consente di fare solo primarie (cioè corse tra leader) in modo da poter convocare una costituente che metta a disposizione della discussione un documento essenziale di visione dell’Italia, di posizionamento del Pd. Un lavoro affidato alla redazione di un gruppo ristretto di figure autorevolissime, che ci dia un manuale sul quale lavorare anche fuori dai circoli Dem, per avviare un procedimento al termine del quale ci sarà una nuova platea democratica, che potrà eleggere classi dirigenti diverse, più ricche di quelle attuali. Questo comporta per noi coraggio e una buona dose di umiltà: dobbiamo metterci al canapo tutti, e vedere chi tra di noi è legittimato per questo nuovo processo. Se il Pd non cambia diventerà un partito inessenziale, una sovrastruttura con forma di casta, che si auto conserverà ancora per qualche anno. Il rischio è che la sinistra in Italia finisca a essere rappresentata da figure come quella dell’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che non è un uomo di sinistra.

Però alcuni esponenti di alto profilo all’interno del PD, come il presidente della regione Lazio Nicola Zingaretti, in passato hanno indicato Conte, oggi capo politico del Movimento 5 Stelle come un punto di riferimento. Lei cosa ne pensa?

«È vero, Zingaretti disse che Conte era il punto di riferimento dei progressisti – un’espressione un po’ forte – ma era un momento politico particolare. Si stava formando un nuovo governo, c’era la speranza di costruire un rapporto duraturo tra Partito Democratico e Cinque Stelle. Però non c’è dubbio che questo abbia creato un equivoco, perché ha dato a Conte una patente che io gli riconosco solo parzialmente. Conte è un populista moderato, fa parte di un campo democratico, però guida un partito che cerca di entrare nelle nostre debolezze per conquistare un elettorato disorientato».

Nicola Zingaretti e il Capo di Gabinetto del Ministero dell’Economia e delle Finanze, Cons. Roberto Garofoli, nel 2017. Foto: Flickr.

I Cinque Stelle riscuotono consensi soprattutto al Sud, con una politica che molti definiscono assistenzialista. La “questione meridionale” è ancora aperta: cosa pensa della situazione del Mezzogiorno?

«Il tema del Mezzogiorno è stato ormai svilito: si menzionano sempre e solo il ponte sullo stretto e il reddito di cittadinanza, come se il Sud fosse un luogo di assistiti, incapace di riscattarsi. Si devono riscoprire le idee dei grandi pensatori meridionalisti come Gateano Salvemini e Guido Dorso, che vedevano nel Mezzogiorno una risorsa e un luogo di costruzione di diritti e di sviluppo del Paese. La sinistra ora al Sud manca completamente, perché non siamo più capaci di interpretare criticamente le sue grandi contraddizioni e l’importanza della sua collocazione geopolitica».

L’attuale legge elettorale è stata proposta nel 2017 da Ettore Rosato, all’epoca esponente del Pd. Oggi quella stessa legge viene criticata da Letta. È considerata da tutti troppo complessa e da molti anti-democratica. Lei cosa ne pensa?

«Il Rosatellum, come il Porcellum che l’ha preceduta, è una legge fatta in articulo mortis, in uno scorcio finale di legislatura, creata al solo scopo di avere una legge elettorale per votare. Il Porcellum fu la “porcata”, rivendicata in questi termini da Calderoli stesso, che l’aveva proposta. Per superarla, quando fu dichiarata incostituzionale, si propose il Rosatellum, di cui Rosato – che era nella commissione parlamentare Affari Costituzionali – era primo firmatario. È vero che all’epoca era membro del Partito Democratico, ma non è una legge del Pd: è stata approvata da tutti. Va modificata: per sostituirla serve una norma bipolare a carattere maggioritario. Sono i collegi uninominali che danno il polso della situazione. La mia esperienza lo dimostra: il parlamentare di collegio è la salvezza della nostra democrazia».

I canali di comunicazione sono cambiati negli ultimi anni. Questo vale anche per la politica, ma finora l’approccio del Pd sui social media non ha funzionato granché. in che modo il suo partito potrebbe utilizzare questi strumenti in maniera più efficace?

«Quello dei social è un aspetto che dobbiamo prendere in considerazione, però le radici di questa condizione si trovano nella cultura politica di origine marxista, dove la “tecnica” viene considerata come una fonte di alienazione. In Italia abbiamo avuto una cultura marxista che, attraverso l’impostazione togliattiana che l’ha mescolata con la cultura crociana, ha separato la tecnica dalla politica. Il primato della politica sulla tecnica ci ha portato a sottovalutare – anche a demonizzare – queste opportunità, vedendole come delle cose che sviliscono la politica».

Sbirciando i suoi profili si nota che lei non è affetto dalla patologia del “tweet compulsivo”, come altri politici. In che modo dovrebbe usare i social UN ESPONENTE DI PARTITO?

«I social sono canali di comunicazione: se li si riempie di valori sbagliati diventano un cumulo di spazzatura. Noi abbiamo fallito questo appuntamento con la storia e dobbiamo recuperare, utilizzando meglio questi strumenti, secondo coscienza. Nel mio piccolo, non scrivo cose volgari, non banalizzo i miei messaggi e provo a metterci qualche cosa di sensato. Non porta a raccogliere molti follower, ma ritengo sia giusto così».

Le condizioni nel Pd sono mature per un ricambio generazionale della classe dirigente?

«I giovani democratici portano energie importantissime. Arrivano dalle università e dalle scuole e si pongono domande sul mondo, non coltivano solo la propria affermazione individuale. Sono ragazzi e ragazze che cresceranno e, se non troveranno un’organizzazione in grado di alimentare il loro interesse, finiranno altrove. Dare più spazio ai giovani è una priorità».

Per molti anni il Pd ha fatto parte dei governi di larghe intese che si sono succeduti. Cosa può dare il partito al Paese ora che è all’opposizione?

«In primo luogo vogliamo affrontare la grande questione salariale. L’Italia è un Paese che ha gli stipendi bloccati da quindici anni, diversamente da altri Paesi europei dove sono cresciuti del 20-30 per cento e perciò vogliamo varare la legge sul salario minimo. Continueremo a sostenere i provvedimenti nel campo dei diritti civili, come la legge Zan e lo ius scholae. Sul tema delle pensioni è da rivedere la legge Fornero, valutandone i costi. Vogliamo lottare contro la flat tax, che sarebbe un disastro per i servizi delle fasce popolari, perché toglierebbe entrate all’erario dello Stato. Per quanto riguarda le politiche ambientali è giusto non togliere il piede dall’acceleratore sulle rinnovabili, senza tornare al nucleare e all’uso dei combustibili fossili. Dei rigassificatori non possiamo fare a meno, perché dobbiamo sopperire alla mancanza del gas russo. Sul piano internazionale terremo una chiara collocazione europeista e atlantista, ma l’Europa non deve essere la ruota di scorta degli Stati Uniti. In Europa deve decidere l’Europa, anche sugli assetti geopolitici. Se fosse così probabilmente la crisi ucraina sarebbe stata gestita diversamente, perché è figlia della debolezza politica europea. Queste sono le principali tematiche su cui faremo opposizione».

Nella coalizione di destra, la Lega ha posizioni anti-Nato, mentre Giorgia Meloni mostra uno slancio atlantista.

«L’Alleanza atlantica ha un senso se è veramente un’alleanza per la sicurezza, non per la contrapposizione con altri protagonisti della scena internazionale. Sia Salvini che Berlusconi sono filo-putiniani e fino a poco tempo fa anche Meloni ha sempre considerato il presidente russo come un naturale interlocutore. Ora la destra è a un bivio, perché la presidente del Consiglio in pectore si propone come europeista, si rivolge alla destra conservatrice, però in realtà continua a relazionarsi con il premier ungherese Viktor Orbán, con Vox e con la destra polacca.

Lei è stato assessore all’Urbanistica a Roma, nella giunta Veltroni. Cosa pensa si possa fare per migliorare la situazione critica delle periferie capitoline?

«Sono stato relatore e vicepresidente della Commissione Parlamentare d’inchiesta sulle periferie e mi sono reso conto che c’è bisogno di un grande investimento – il Pnrr affronta solo in parte questo problema – su servizi di scala superiore. Nelle periferie esistono le aree per realizzare servizi secondari e persino le possibilità finanziarie, che non vengono tradotte in opere perché le amministrazioni sono deboli, hanno pochi tecnici, non sanno fare i bandi né le gare. A Roma bisogna puntare sul polo universitario di Tor Vergata, dove è già previsto un investimento per Expo 2030. Per altri progetti resto scettico, per esempio ho qualche dubbio che costruire lo Stadio della Roma a Pietralata [in realtà la struttura insisterà sul quartiere di Monti Tiburtini, ndr] possa essere la scelta giusta. Ho lavorato su un nuovo ordinamento per Roma capitale, che stava per essere discusso al Parlamento, ma poi è caduto il governo».

Lei è un politico ma anche uno scrittore: ha in programma nuovi libri?

«Due. Uno è pronto e s’intitola Sono nato quando c’era la Fiat. È un libro un po’ nostalgico, che parla delle automobili come fossero un pezzo del panorama urbano. È un libro di poesie, in parte in dialetto romanesco, più tre racconti a chiave. Uno riguarda la morte di Stalin, uno la fucilazione di Mussolini, una la morte di Alberto Ascari, un pilota di Formula 1. L’altro è un progetto fermo da tempo, per il quale però ho già raccolto tutto il materiale. Si chiama Figli (della politica) del ‘900 e raccoglie storie di figli e figlie di uomini politici del secolo scorso che hanno scontato gli errori dei padri».



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