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Le proteste antigovernative in Iran: theWise intervista Masoudeh Miri

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Enrico De Biasio

Da quasi un mese l’Iran è attraversato da un forte moto di indignazione e protesta per la morte della ventiduenne Mahsa Amini, che i manifestanti attribuiscono ad un pestaggio inflittole dalla polizia morale, il Basij.

Al grido di «Donna, vita, libertà», un gran numero di cittadini ha invaso strade e piazze mettendo in grave difficoltà la democratura iraniana, che ha risposto col pugno di ferro nei confronti dei manifestanti.

theWise Magazine ha avuto occasione di intervistare Masoudeh Miri, architetta e artista iraniana residente in Italia da diversi anni, su quanto sta accadendo in Iran e sulla condizione della donna nel Paese.

La morte di Mahsa Amini lo scorso 16 settembre ha infiammato l’Iran, facendo esplodere la rabbia delle donne nei confronti di un regime autoritario e misogino. Cosa significa essere donna in Iran?

«Vuol dire tante cose, tante restrizioni, tante negazioni. Io stessa, per tutta l’adolescenza, ho negato la mia femminilità. Non volevo essere una donna o una ragazza, perché significava essere un cittadino di secondo grado. Godi di diritti a metà. Tipo l’eredità: tu donna ricevi la metà di quello che riceve tuo fratello.

Oppure, se vuoi viaggiare all’estero devi avere il consenso, se sei sposata, di tuo marito, sennò di tuo padre o di tuo fratello. Tante donne si trovano in difficoltà perché magari il marito vuole metterle sotto pressione e allora non dà loro il permesso di viaggiare.

E poi c’è il velo obbligatorio».

Che è alla base di queste proteste particolari.

[Mahsa Amini è stata fermata dalla polizia morale il 16 settembre 2022 perché non indossava correttamente il velo. Per protesta le manifestanti hanno iniziato a dare fuoco ai propri veli e a tagliarsi i capelli in pubblico, N.d.R.]

«In particolare sì.

Solo che quello che in Occidente non si sa è che in Iran già dal 1 marzo 1980 le donne sono scese in piazza, quando cioè il regime ha imposto che le donne che lavorano negli enti pubblici debbano mettersi il velo.

Poi pian piano questo obbligo si è espanso a tutte le donne. Tant’è che pure le turiste occidentali oggi devono indossarlo».

In occidente si ha spesso la sensazione che il Paese reale sia più avanti del suo governo. Penso anche all’episodio di Persepolis nel quale la giovane Marjane Satrapi fa headbanging ascoltando gli Iron Maiden. È effettivamente così?

«[Ride] Anche io ho vissuto l’adolescenza così.

Sì, c’è un divario enorme tra il modello proposto dal regime e la vita quotidiana della gente. Tant’è che noi abbiamo una doppia vita. Uscendo di casa dobbiamo metterci per forza il velo. Ma se tu andassi a una festa privata, di compleanno o altro tipo, diresti che non sei Iran: abiti occidentali, trucco, capelli.

Anche il consumo dell’alcol. Quando ero ancora in Iran, solo a Teheran avevano aperto tre centri di recupero per alcolisti. In un Paese dove l’alcol è vietato.

Questa scena poi la vedi in tutti i voli che partono dall’Iran: quando l’aereo supera il confine, tutte le donne si tolgono il velo e poi senti proprio l’urlo, tutti che applaudono [ride]. Per dirti che questa cosa noi la viviamo in modo opprimente. Non è il nostro stile di vita.

Questa volta, finalmente, dopo tanti anni di battaglia, la rivolta è accaduta».

Masoudeh Miri, 1985, Zahedan (Iran). Architetta e artista iraniana con diverse mostre all’attivo, vive e lavora in Italia da più di un decennio. Foto per gentile concessione dell’intervistata.

Io ero ragazzino quando c’erano le proteste del 2009, il movimento verde. Diresti che queste di oggi sono le proteste più partecipate da allora?

«[ride] Io sono una veterana del movimento verde! L’ho vissuto!

In Occidente, direi di sì.

C’è stata comunque una protesta nel 2019 in cui il regime ha oscurato internet per una settimana. Poi abbiamo scoperto che il regime ha usato le armi da guerra, Dushka [mitragliatrici pesanti, n.d.R.] e carri armati, causando più di 1500 morti. In Occidente se ne è parlato pochissimo. Non è una cosa nuova per noi.

Fortunatamente, questa volta la nostra voce l’hanno sentita in Occidente».

Un ruolo particolare nella vicenda di Mahsa Amini è ricoperto dalla cosiddetta polizia morale, che l’ha prelevata mentre si trovava a Teheran in vacanza perché a detta loro portava il velo in maniera poco aderente. È frequente per le donne essere fermate e passate in esame dalla polizia?

«Sì. Molto. Anche a me, quando ero in Iran, capitava.

Io sono sempre stata una ribelle: quando cercavano di fermarmi gli dicevo: “Sì, cosa vuoi?!” E lì si tiravano un po’ indietro, dicevano: “Ah no, signorina, fanciulla bella, metti un pochino meglio il velo e bla bla bla”. E io dicevo: “Va bene”. E non facevo nulla e me ne andavo.

Però io sono stata fortunata.

Conosco tante persone che sono state prese e portate in caserma. E lì chiamano i tuoi genitori, gli dicono che devono portarti un vestito adeguato. Una cosa allucinante».

Sebbene discrimini nei fatti la metà della popolazione, ci sono state manifestazioni pro-governo: da dove arriva questo sostegno?

«Sì, c’è stato un gruppetto di donne con lo chador. Sono per lo più persone pagate.

Ti dico una cosa. Io vengo da una famiglia che – a parte i miei genitori, che hanno una mentalità molto aperta – era molto religiosa. Negli ultimi dieci anni io vedo che i miei cugini, le mie cugine e ancora altri familiari sono completamente cambiati.

La preghiera non la fanno più. Sui social mettono le foto senza il velo. Una cosa impensabile vent’anni fa.

Io mi ricordo: si alzavano al mattino presto a fare la preghiera, chiamavano tutti i figli: “Alzatevi, dobbiamo fare la preghiera”.

Se è successo nella mia famiglia, super religiosa, è successo in tante altre famiglie. Lo si vede: lo si vede dai social, anche dal modo in cui le persone si vestono rispetto a vent’anni fa. È cambiato drasticamente».

C’è il timore da parte del governo che cedendo anche di un millimetro questo porterebbe al tracollo del sistema della repubblica islamica? Un effetto valanga?

«La valanga c’è già.

Parto dal Movimento Verde (2009), che è quello che ho vissuto anche io e che conoscono meglio in Occidente. Da lì in poi con una cadenza di circa un anno e mezzo o due anni ci sono sempre state rivolte, piccole o grandi.

Il Movimento Verde era una rivolta del ceto medio, poi ci sono state le proteste degli operai e quelle degli insegnanti. Ma tutte separate, delle isole che sono riuscite a unirsi.

Proteste in Iran nel 2019. Foto: Wikimedia Commons, Mehr News Agency, Alireza Vahabzadeh, CC BY 4.0

Questa volta fortunatamente le forze si sono unite. È questo che fa molta paura al regime. Questa volta è diverso: sia persone che conosco io che altri iraniani all’estero sentono i loro amici e familiari in Iran e tutti quanti dicono che stavolta è diverso, la situazione è irreversibile e non si torna più indietro.

Ormai vogliamo cambiare: non è solo la questione dei diritti della donna. Ci sono così tanti diritti negati per 44 anni che la gente ormai pensa che non le sia rimasto nulla da perdere.

La riforma non ha più senso. Per vent’anni abbiamo [in Iran] cercato di fare la riforma: non ha funzionato, la situazione è sempre peggiorata».

Fino a che punto si spingerà il regime con la repressione?

«Sono disposti a tutto.

Venerdì scorso [30 settembre] nella mia città natale [Zahedan] c’era un gruppo di protesta.

Qualche settimana fa, uno dei pubblici ufficiali della regione ha stuprato un ragazzina di quindici anni, la notizia è uscita fuori e la gente era furiosa. Quindi sono andati in piazza a protestare e siccome era venerdì, all’ora della preghiera si sono messi a pregare.

Hanno mandato le forze di sicurezza e hanno sparato alla gente dall’alto. Ad oggi si contano più di 85 morti.

Il regime è disposto ad usare qualsiasi strumento, come ha fatto nel novembre 2019. Ma ormai le persone non hanno paura. Soprattutto i ragazzi, sono coraggiosissimi».

Immagine di copertina: Wikimedia Commons, Darafsh, CC BY-SA 4.0.

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Enrico De Biasio

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