In tutto il mondo sono numerose le parole che non trovano traduzione diretta in lingue diverse da quella a cui appartengono. Sono termini nati nel parlato per esprimere una sensazione che non si manifesta in tutte le culture. Oppure una situazione, un’emozione che è stata osservata solo da una società in particolare.
Fu una di queste, ai primi anni del Novecento, a intrappolare il filosofo giapponese Kuki Shuzo. Dedicò buona parte della sua vita alla ricerca della struttura più pura per il termine iki.
Dalla sua indagine, arricchita dall’esperienza sul campo e dai contatti con il mondo occidentale, nacque nel 1930 un breve e fluido trattato: La struttura dell’iki. In Italia il saggio arriverà solo nel 1992 per Adelphi e oggi torna in una nuova veste grafica fresca di stampa. Grazie all’introduzione della curatrice Giovanna Baccini emerge anche un quadro completo della vita di Kuki Shuzo. Emerge il suo rapporto complesso con i genitori, emerge una controversa e per certi tratti contradditoria idea di Oriente e Occidente.
Kuki Shuzo e La struttura dell’iki
Kuki Shuzo non era uomo di umili origini, ma con ogni probabilità non andava fiero di un padre che l’aveva nascosto al mondo e poi strappato alla madre. Figlio di una geisha, Sugiyama Hatsuko, concubina del padre Kuki Ryuichi, ministro dei Beni Culturali, diplomatico e consigliere dell’imperatore, il filosofo naque nel 1888 vicino a Kyoto. Dopo un’infanzia difficile, durante la quale non aveva potuto dedicarsi alla botanica quanto desiderava, fu costretto a scegliere gli studi di giurisprudenza.
Ma ben presto emerse il desiderio umanistico di Kuki Shuzo, che ripiegò sulla letteratura e poi si dedicò alla filosofia.
Fu un viaggio di studio in Europa, senza data di ritorno, a dare il via a tutta una serie di incontri. Conobbe, tra gli altri, Jean-Paul Sartre, Bergson e Heidegger. Scoprì la poesia francese di Baudelaire, Valèry e Mallarmé; poi quella italiana di Dante, Petrarca e D’Annunzio. Arrivò a conoscere ben otto lingue, come il greco, il latino e il sanscrito, e parlava correntemente tedesco in Europa. Conosceva il cinese, l’inglese e il francese. Studiò anche l’italiano.
In tutto questo non aveva perso l’abitudine di frequentare le case da tè, ossia quelle strutture in cui le geisha apprendono e coltivano l’arte della seduzione a tutto tondo. Infatti Kuki non troverà mai in nessun altro Paese la cultura dell’erotismo, l’autentica sublimazione del desiderio.
Di certo questa è una chiave per aprire i cancelli del trattato La struttura dell’iki, poiché parte dall’indagine in prima persona, dall’esperienza, e si amplia poi grazie alle conoscenze che Kuki Shuzo ha acquisito nel corso della sua vita. In effetti il saggio è uno dei suoi ultimi lavori filosofici, come a voler consegnare un lascito a tutti coloro che si pongano la domanda: cos’è l’iki?
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Un significato di superficie per un iceberg di irrealtà
[…] e rimase a osservare la figura che pian piano affiorava. Era quella di una geisha del Tatsumi di Fukagawa del periodo Bunka-Bunsei: attrice di una grazia (iki), che è l’andamento (iki) del respiro (iki), della vita (iki) e dello spirito (iki). Incarnazione del Bodhisattva Samantabhadra che con grazia e amore suscita attraverso l’esperienza estetica il desiderio della conoscenza.
[dal saggio “Una grazia inflessibile” di Giovanna Baccini, curatrice dell’edizione italiana per Adelphi del trattato La struttura dell’iki. “Grazia”, “andamento”, “respiro”, “vita” e “spirito” si scrivono con diversi kanji, ma si pronunciano tutti “iki”, N.d.R.].
Iki è un termine nato per esprimere un fascino particolare e meticoloso che si ritrova tanto nei corpi quanto nell’arte. È un aggettivo complesso, che non si esaurisce nel concetto di eleganza o di sensualità. È una parola che non ha molto a che fare con l’austerità o il fasto, ma che ingloba con un caldo abbraccio tutte queste accezioni.
E Kuki Shuzo è abile nel tessere La struttura dell’iki. Dopo aver studiato per anni metodo e applicazioni, il filosofo sa già cosa mettere nero su bianco e come farlo. Quindi riesce ad accompagnare il lettore con una pacata e leggiadra maieutica dalla punta dell’iceberg fino al fondo fluttuante di questo gigantesco blocco di significati.
In cima al picco gelido c’è l’uso banale e sistematico del termine, ma l’autore svela che in verità questo uso è possibile proprio perché la parola iki racchiude più di una sensazione, per divenire «fenomeno di coscienza», per di più dotato di «specifica natura etnica». Sta dicendo che solo in giapponese esiste l’iki e che è nato nella lingua nipponica per esprimere un concetto esclusivo di un determinato gruppo di parlanti.
Il saggio parte dall’analisi degli attributi dell’iki; quegli elementi intensivi che danno un contenuto di significato alla parola. Seduzione, che è primario, spirito e rinuncia, che derivano e si relazionano con il primo.
Iki, bushido, buddhismo: una triade indivisibile
Kuki carica la parola di una valenza non solo sociale, ma anche storica. Lo rende simbolo della tradizione giapponese, dimostrando che contiene in sé le tracce del passato.
La seduzione per mantenersi viva deve essere sorretta da una tensione, afferma il filosofo, e questa tensione è possibile grazie allo spirito, all’«energia spirituale». Nella storia del Giappone l’incarnazione di tale impulso risiede nel bushido, la via del samurai. È l’impeto, la forza d’animo, la tenacia.
Di contro, però, una geisha non potrà mai essere scontrosa o sfrontata, oppure al contrario troppo disponibile o frivola. Ecco allora il terzo elemento di una triade equilibrista. La rinuncia. La semplicità e la sincerità che possono derivare da una fede che accetta senza dolore il proprio destino. Possono derivare solo dal buddhismo della scuola della Pura Terra.
Dopo aver rivelato questa triade di attributi inscindibili, Kuki Shuzo può dare all’iki anche una struttura estensiva, che travolge i suoi sinonimi e i suoi contrari, ma anche tutte quelle parole che non appartengono al mondo fluttuante delle case da tè.
Infine poi viene la filosofia estetica e pratica del termine. Gli ultimi capitoli sono infatti dedicati alle espressioni, naturali e artistiche, che si possano definire iki. E l’inserto di tavole di Adelphi arricchisce l’esperienza del lettore con foto, stampe e motivi esemplificativi.
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Un’analisi che abbraccia il Giappone: spinte tradizionaliste
Fin dall’introduzione è chiaro che il filosofo sa già di non poter trovare nulla di iki al di fuori del Giappone. L’introduzione, incentrata sulla ricerca di termini occidentali che possano tradurre una parola così potente, si lega stretta alla conclusione.
È vero, Kuki Shuzo invita il lettore a sperimentare con i suoi stessi sensi cosa significhi iki, perché in un trattato lui può solo fornire «una analisi concettuale». Ma poche righe più avanti ribadisce che «l’iki è QUALCOSA DI NOSTRO», una produzione orale e artistica esclusiva del Giappone.
Allora, forse questo trattato è un ottimo pretesto per evidenziare la dedizione per la sua terra natale. Il filosofo vede in una singola parola la massima espressione di tutto un popolo, con la sua storia, la sua cultura e le sue origini.
Vista la passione di Kuki per la filosofia estera e le culture europee, verrebbe da chiedersi come mai in questo saggio emerga invece una spinta tradizionalista. E la spiegazione è semplice.
È un uomo del suo tempo, in un Giappone controverso: vuole imitare quei Paesi allora ritenuti potenze mondiali e al contempo è innamorato e orgoglioso di essere giapponese.
In tutto il saggio torna spesso la parola “Yamato” per indicare un’unica discendenza per tutti i giapponesi. Per stabilire una netta divisione tra Giappone e resto del mondo.
Un’apparente contraddizione per un uomo che tanto a lungo ha vissuto in Europa e tanto ha amato allontanarsi dalla propria terra. Però in verità non è affatto contraddizione.
Piuttosto, è una tensione ostinata simile a quella di un fedele samurai che accetta il proprio destino. Eccola la sprezzatura unita alla costante ricerca di sensualità. Ecco che la vita di Kuki Shuzo diviene anch’essa espressione dell’iki.