Nel segreto, ogni uomo è più o meno attratto dall’orso, da questa figura mitica e magica, spaventosa e splendida. Ciascun uomo vorrebbe sapere cosa si nasconde sotto la pelle dell’orso. Ed è grazie a Joy Sorman se può immaginare i sentimenti e le sensazioni coperti da una folta pelliccia scura e un morbido sottopelo.
Nata a Parigi nel 1973, Joy Sorman è scrittrice e saggista. Il suo primo romanzo, Boys, boys, boys, è stato pubblicato nel 2005 con la casa editrice Gallimand che cura tuttora la sua produzione letteraria.
In Italia arriva nel 2014 Come una bestia, edizioni nottetempo, ed esce ad aprile 2022, per le stampe di Alter Ego Edizioni, La pelle dell’orso, tradotto da Valentina Maini. Con quest’ultimo romanzo Sorman ha conquistato il Prix Marguerite Puhl-Demange nel 2015.
La trama del romanzo
Attraverso La pelle dell’orso, Joy Sorman racconta la storia di un essere particolare, un ibrido nato dall’accoppiamento di un orso con una donna. Non ha un nome e viene ripudiato subito dalla comunità che dovrebbe al contrario accoglierlo.
L’aspetto esteriore è quello dell’orso, ma dentro vive un uomo. L’autrice rimette insieme la vita dell’animale lasciandolo parlare. Così il protagonista stesso può guidare il lettore in un viaggio che sembra non finire mai. Dal bigotto paesello passa nelle mani di un addestratore di orsi, che lo rivende oltreoceano a una carovana di circensi.
Nonostante piccole effimere gioie tanto agognate e appena sfiorate, lo sventurato mostro sembra abituarsi alla sua infelice vita, finché ancora una volta finisce abbandonato, venduto e portato via. Stavolta andrà in uno zoo e lì resterà.
Questo essere dalle fattezze bestiali e dal cuore distrutto non ha mai conosciuto la vera vita dell’orso, non sa cosa sia la libertà. Al contrario ha imparato a domare i propri istinti, a limitare i desideri più intimi in nome della paura e delle strette regole sociali.
Ha scelto di vivere un’esistenza ai margini perché, per quanto la brami, non conosce la potenza degli ursidi. E così si lascia sballottolare da una parte all’altra del globo, senza mai rivendicare la propria ferinità, anzi, diventando sempre più docile e mansueto. Sempre più simile all’immagine dell’orso costruita dall’umanità.
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Dal mito alla favola di Pinocchio
Il romanzo è diviso sulla pagina in tre sezioni: il prologo, il racconto dell’orso e l’epilogo. Nella prima parte è ancora presto per ascoltare l’orso. Qui l’autrice scava nel mito e ricava una storia antica, un patto di non aggressione stipulato tra l’uomo e l’orso. Un accordo basato sulla paura e sulla punizione, sulla violenza e sul bisogno di controllo: l’uomo non poteva cacciare orsi, ma gli orsi non dovevano avvicinarsi ai villaggi o attrarre donne.
Succede però che un orso rapisce una ragazza, la porta nella sua tana e la tiene prigioniera. La violenta per tre anni e da questa unione aberrante nascerà il protagonista. In questo passaggio il mito è già lontano, il romanzo è entrato nella dimensione della favola.
Da questo punto in poi la storia sembra un contemporaneo Pinocchio. Solo che il burattino, la strana creatura, non nasce dall’amore di mastro Geppetto, bensì dalla prepotenza, dalla brutalità, dallo stupro di un animale istintivo. E la fata madrina, la mamma dell’orso, è una strega da torturare ancora, da esorcizzare per aver commesso peccato.
Poi il bestiale Pinocchio finisce nel mondo dei santimbalchi e dei funamboli, viaggia con la carovana di un Mangiafuoco che manovra i suoi fili e lo piega alle necessità di scena. È un fenomeno da baraccone, un mostro da esporre alla curiosità dei passanti per raccogliere qualche spicciolo.
Ma chi è il vero mostro?
Fin dalle prime pagine il lettore farà fatica a identificarsi con la moltitudine di uomini. Con più probabilità l’orso attirerà più simpatie. Forse per il suo atteggiamento, così docile, abituato al sopruso e impaurito dal dolore. È nel mostro che Sorman riesce a creare un personaggio con cui stringere amicizia, con cui proseguire il viaggio da una carovana all’altra.
Ma allora è un vero mostro?
Se è così facile identificarsi con una creatura inesistente, allora rimane ben poco dell’orso sotto lo strato spesso di peli fitti e grasso.
Sotto la pelle dell’orso Sorman individua l’umanità. Un’umanità debole e spaventata, sottomessa alle prepotenze di chi ha la frusta o porta cibo. Trova la vera essenza della società contemporanea, anestetizzata dalla necessità di tacere pur di trovare un’esistenza tranquilla. Forse Sorman sta dicendo che l’uomo ha dimenticato una dimensione più naturale, più istintiva, lasciandosi condurre in catene e accettando un misero destino.
Forse sta anche dicendo che il mostro è nell’uomo stesso. Nell’uomo che sfrutta e distrugge, che colleziona animali come oggetti, nella costante ricerca del possesso.
«Gli uomini non ci lasceranno mai in pace» dice il protagonista appena venduto a un circo. «Non pensano ad altro che a spostarci, a comprarci e a venderci, caricarci e scaricarci». Gli animali sono merce, preziosa ma maltrattata. Poi però sorge la domanda: «Ma loro da cosa fuggono? Da guerre, peste, rovina? Sembrano così impazienti di partire».
Allora anche l’uomo, che è il mostro, vorrebbe scappare, vorrebbe cambiare. Ma non lo fa.
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Femminilità e ferinità
Lungo i suoi interminabili viaggi, il protagonista entra in contatto con donne molto diverse tra loro. E più volte lungo il romanzo l’autrice ricorda un legame antico fra donne e orsi.
Per lo più i personaggi femminili appartengono al mondo del circo o della galleria dei fenomeni, un museo annesso alla pista delle esibizioni. Sono persone con cui l’orso vorrebbe stringere un legame, ma per paura, forse anche per pudore, non lo fa mai davvero. Sono invece loro ad avvicinarsi a lui.
Tre donne si avvicinano più di altre, addirittura entrano nella sua gabbia di notte, dormono tra le braccia dell’orso e solo così abbandonano una qualche femminilità per trovare invece la più nascosta ferinità. Ancora, questi due aspetti finiscono per compenetrarsi mediante il racconto dell’orso stesso. Sono donne in tutto e per tutto, l’istinto non smette mai di far parte di loro. Come l’ibrido urside anche loro sono costrette a esibire i loro corpi, a far guadagnare il gruppo con le proprie abilità e mostruosità.
Tutta questa instistenza su un rapporto intimo e quasi carnale tra donna e orso si spiega con facilità grazie al mito del prologo. Perché dovrebbe essere la donna, più dell’uomo, a cercare l’orso?
Ma perché alla donna secoli di patriarcato hanno impedito di riconoscere e assecondare i propri istinti, hanno trattato il corpo della donna come icona, le hanno precluso la possibilità di esplorarlo, di identificarlo come proprio e non dovuto all’uomo.
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La pelle dell’orso e lo stile di Sorman
Emerge dunque in diversi punti un certo tipo di femminismo, al quale l’autrice non è estranea. Anzi, è proprio quel «femminismo virile» di cui il suo esordio è manifesto.
In La pelle dell’orso lo stile di Joy Sorman è potente, evocativo e crudo. Non si lascia intimidire da tematiche come la violenza e il sopruso, anzi, le imposta come base di un discorso più ampio che arriva a comprendere l’umanità tutta.
Denuncia i mali di una società maschilista che rigetta una donna vittima di violenza come fosse un criminale o peggio. Ricorda che la condizione di bestia fa parte anche dell’animale uomo. Racconta che proprio reprimendo la natura e con lei i suoi istinti si scade nella cattiveria e nello sfruttamento. Il mostro non è il protagonista, il mostro è l’uomo che nasconde sotto una violenta pelliccia un essere spaventato dalla sua stessa condizione.
«Tu orso tu sei tutto ciò che abbiamo abbandonato»