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Statosauri, quando il progresso tecnologico fa paura

Published by
Angelica Migliorisi

Il mondo non esiste più. Almeno per come abbiamo imparato a conoscerlo, ad abituarci a esso, alle sue forme e ai suoi contenuti. E se quel mondo è un ricordo, quale stiamo vivendo adesso? Nel suo ultimo libro, Statosauri, guida alla democrazia nell’era delle piattaforme (Quinto Quarto Edizioni, 2021), Massimo Russo, direttore della rivista maschile Esquire Italia e direttore digitale per i Paesi dell’Europa occidentale del gruppo editoriale Hearst Corporation (Elle, MarieClaire, Cosmopolitan), individua la risposta nel passaggio dall’era delle Macchine all’era della Rete (Net age).

Protagonisti del cambiamento, quei colossi tecnologici che hanno imposto, negli ultimi vent’anni, paradigmi unici e sfide sempre più complesse. Basti pensare, come nota l’autore, che a oggi «la somma del valore di borsa di queste cinque aziende [Apple, Microsoft, Amazon, Aphabet, società che controlla Google, e Facebook, N.d.R.] supera la somma della ricchezza prodotta in un anno da Germania e Francia, la quarta e la settima economia del pianeta». Cinque aziende. O meglio, cinque piattaforme.

Leggi anche: Evoluzione tecnologica e orario di lavoro: mezzo secolo di stasi.

Nel nuovo mondo dominato dai giganti digitali (big tech), nuovi devono essere gli strumenti utilizzati per governare la complessità: «Come accade per le tecnologie superate, è ora di cambiarle, di mutuare proprio da queste piattaforme alcuni dei meccanismi che le hanno rese così grandi» scrive il giornalista. Nel mirino del cambiamento, anche gli Stati nazionali, «tecnologie obsolete» che sfruttiamo come Statosauri impauriti, che trovano nel vecchio la sicurezza della conoscenza e nel nuovo l’incertezza dell’imprevedibilità. 

Da questo punto di vista, secondo Russo, la diffusione del sovranismo cui si è assistito negli ultimi anni in varie parti del mondo «è proprio figlia di questo processo di superamento. Proprio quando i confini non funzionano più, tendiamo a farli proliferare per tranquillizzarci. Scambiamo il sovranismo con la sovranità». Un quadro pasticciato ancor di più da una pandemia, che porta con sé dubbi e preoccupazioni per il futuro. 

Eppure, come argomentato nel libro, sono proprio questi «i migliori anni della nostra vita»: nuovi poteri spettano alla nuova umanità, nuovi scenari e prospettive l’attendono, se è disposta a farsi carico di nuove responsabilità. E a chi teme il salto nel vuoto, il giornalista risponde che «è spesso proprio l’incertezza ad aprirci nuove strade, nuove opportunità, a tenerci sulla corda, stimolando la nostra creatività. Chiamatela, se vi va, tensione vitale».

Leggi anche: Io, giornalista robot. La stampa tra progresso e tradizione.

Russo esplora i meccanismi e i processi dell’era della Rete, scompone le piattaforme ispezionandone caratteristiche, rischi e opportunità; analizza il rapporto tra big tech e Stati, individuando i terreni di scontro che ne impediscono una coesistenza pacifica. E tutto per identificare quel quid che ha determinato il successo degli imperi digitali così da trasferirlo alla nuova democrazia. Per farlo, il libro passa in rassegna tre modelli: Stati Uniti, Cina ed Europa. 

Il primo, una società aperta ed egualitaria dove il nuovo può fiorire grazie agli scambi e agli «incroci tra persone, società, imprese». Non è un caso che proprio negli Usa, «la guida del processo di innovazione e di crescita sia passata saldamente nelle mani delle piattaforme», fino a creare «un vero e proprio nuovo centro di potere geopolitico, per molti versi superiore a quello dello Stato federale».

Il secondo, per cui piattaforme e Impero coincidono, tanto da rendere difficile distinguere le une dall’altro, dando origine a un’«autocrazia tecnologica». Basti pensare che la Repubblica Popolare rilascia documenti rilevanti, come la patente di guida, attraverso WeChat, l’app tuttofare «che [in Cina, N.d.R.] rappresenta oltre il 98 per cento delle destinazioni che altrove sono siti web».

Il terzo, un continente che per mancanza di lungimiranza non è stato in grado di creare un terreno favorevole allo sviluppo di piattaforme di respiro internazionale: come sottolinea Russo, «mentre le aziende digitali dell’Ue [Unione europea, N.d.R.] restano vicine a casa, limitando le opportunità di espansione, società come Netflix e Amazon hanno conquistato posizioni dominanti nell’Unione». A pesare, l’assenza di un mercato unico per i servizi e, più in generale, di una prospettiva veramente comunitaria. 

Tuttavia, nulla è perduto. Perché proprio l’Europa, per ragioni culturali (su tutte, i diritti, la meritocrazia, un’idea inclusiva di cittadinanza) ancor prima che economiche, rappresenta la candidata ideale per realizzare il processo di superamento dello Stato nazionale e adeguare le strutture esistenti all’età della Rete: ossia, «la missione – dice il giornalista – di costruire un neoumanesimo per il presente, di abbracciare l’incertezza, grazie all’apparente fragilità di un apparato di valori liberali, in realtà antifragile». 

Anche per l’Italia, la partita resta aperta. Complici una serie di fattori internazionali, accelerati dalla pandemia, «nei prossimi 36 mesi [il Paese, N.d.R.] sceglierà la strada che percorrerà per i successivi 30 anni. Come direbbero le sorelle Wachowsky [registe della trilogia cinematografica Matrix, N.d.R.]: pillola rossa, ovvero il sentiero della libertà, della responsabilità, l’abbraccio dell’incertezza e del cambiamento, il rischioso salto nella Net age; pillola blu, ovvero la rendita, per chi ancora ce l’ha, e il declino (che – una volta finiti i soldi – potrebbero somigliare più a un avvitamento rapido che a un malinconico tramonto sorrentiniano)». A noi la scelta. 

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Angelica Migliorisi

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