Uno dei primi provvedimenti adottati dal governo Meloni è l’introduzione, nel codice penale italiano, dell’art. 434-bis.
Questa previsione legislativa, conosciuta ai più come reato anti-rave, è diretta, appunto, a reprimere tali eventi o, comunque, a prevenirli. Tralasciando ogni valutazione sull’effettiva necessità di un simile reato, la norma, così come scritta, risulta piuttosto problematica. Non solo i confini della stessa appaiono alquanto sfocati ma, soprattutto, vi è il concreto rischio di conflitto con importanti istituti generali e principi fondamentali propri del diritto penale.
L’articolo 434-bis
Il nuovo precetto penale, introdotto con il D.L. n. 162 del 31/10/2022, è rubricato come “Invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica” e inserito fra i delitti contro l’incolumità pubblica. Occorre precisare che con incolumità pubblica si fa riferimento a un numero indeterminato di persone e che le norme penali, poste a tutela di tale bene giuridico, sono di solito di pericolo, ossia volte a punire la condotta anche solo potenzialmente idonea a lederlo, così come la nuova previsione in esame.
Per quanto riguarda il contenuto della norma incriminatrice, questa recita:
«L’invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica consiste nell’invasione arbitraria di terreni o edifici altrui, pubblici o privati, commessa da un numero di persone superiore a cinquanta, allo scopo di organizzare un raduno, quando dallo stesso può derivare un pericolo per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica».
Con riguardo alle pene previste, invece, gli organizzatori e i promotori delle condotte appena descritte, tipiche dei rave party, possono essere puniti con la reclusione da tre a sei anni e con la multa da mille a diecimila euro. Diversa, invece, la pena per i partecipanti che, recita la norma, è diminuita. In ogni caso, viene disposta la confisca delle cose destinate a commettere il reato.
C’era la necessità di un autonomo reato?
Fra le prime domande da porsi, analizzando la fattispecie introdotta, è se vi fosse la necessità sociale di una specifica norma punitiva. Lo strumento penale deve essere utilizzato come extrema ratio da parte dello Stato per reprimere e prevenire condotte particolarmente gravi, garantendo, così, la pace sociale. Seppur risalente a quasi un secolo fa, il codice penale italiano rendeva già punibili tali condotte che, appunto, non sono mai state legittime.
Fra queste ricordiamo, in primo luogo, l’art. 633 del codice penale che prevede la punibilità di chiunque invada, al fine di trarne profitto o di occuparlo, un edificio o un territorio altrui. A questa disposizione si affianca il successivo articolo che punisce, invece, chiunque tramite violenza o minaccia impedisca il libero godimento di un bene immobile altrui. A questi si aggiungono, poi, la violazione di domicilio, o anche l’abusivo ingresso in un fondo altrui. Le norme, dunque, ci sono anche se, a ben vedere, la pena per tutti questi delitti è prevista in un massimo di quattro anni con possibilità, quindi, di accedere a tutti i benefici di legge (riti abbreviati e simili).
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La previsione di una nuova, specifica, norma allora potrebbe trovare un senso sotto quest’ultimo punto di vista. Il legislatore, così come è avvenuto per l’omicidio stradale, vuole evitare l’applicazione di benefici e sconti di pena o, più semplicemente, siamo di fronte all’ennesimo “reato di facciata”. Non è la prima volta che un governo utilizza lo strumento della legge penale, così come è avvenuto anche con la legittima difesa domiciliare, come strumento dimostrativo del proprio programma elettorale. La normativa penale, dati gli stretti contatti con la vita privata, si pone infatti come un sistema particolarmente efficace per far percepire alla popolazione l’attività di governo anche se, come nel caso concreto, va a disciplinare un ambito non necessario, urgente o allarmante.
Le problematiche strutturali del nuovo reato
Al di là delle valutazioni sull’utilità della nuova norma o, comunque, sulla sua necessità in questo momento storico, occorre valutare alcune importanti problematiche a essa collegate e riferibili alla struttura della norma stessa.
I reati mirano a tutelare un bene giuridico di rango costituzionale, legittimando così la possibilità di limitare un diritto di pari rango come quello della libertà personale. Alle volte può capitare che la tutela di tali diritti si ponga in conflitto con altri diritti e, in questo caso, il legislatore è chiamato a un bilanciamento degli interessi. Nel caso di specie è evidente come l’art. 434-bis si ponga in conflitto – o, almeno, questo è il rischio – con la libertà di riunione. In forza di tale principio, infatti, chiunque può pacificamente radunarsi in un luogo pubblico. La norma, a ben vedere, pone l’accento sull’elemento del pericolo legittimando, così, la compressione di tale diritto costituzionale non andando, almeno a prima vista, a comprendere le riunioni pacifiche o, comunque, da cui non derivi pericolo. Tuttavia, a una simile conclusione si può giungere solo a livello interpretativo di una norma che, sulla carta, appare fin troppo generica.
Da qui il secondo e più importante contrasto inerente al principio della tassatività della legge penale. La norma penale deve essere tassativa, deve consentire a chiunque di poter distinguere con precisione e determinazione ciò che è penalmente lecito da ciò che non lo è. Analizzando la fattispecie appena introdotta si possono notare alcune importanti lacune. Seppur sia sottinteso lo scopo di tale legge, conoscendo lo spirito della novella legislativa e la propaganda a essa connessa, dal dato letterale del testo non si comprende quali raduni siano vietati e quali no, nonostante la precisazione sulla pericolosità degli stessi. La norma richiede il mero radunarsi di più persone, nello specifico 50, e che da ciò possa derivare un pericolo. Va da sé che le interpretazioni potrebbero essere molteplici, se non allarmanti. Si pensi, in questo senso, all’occupazione di un terreno come forma di protesta per una nuova costruzione o a una manifestazione studentesca. Tutte condotte potenzialmente pericolose e che, con una lettura strumentalizzata della norma, sono riconducibili a tale delitto.
Un’ulteriore pecca si può ravvisare nella determinazione della pena. Per gli organizzatori e per i promotori di tali eventi la pena è stabilita, in maniera particolarmente grave peraltro, mentre per gli utenti è previsto che la stessa venga ridotta, senza specificazione alcuna, nemmeno un riferimento.
Il legislatore, ancora una volta, sembra aver voluto cavalcare l’ondata del sentimento pubblico in occasione di un recente fatto di cronaca (il rave party di Modena) introducendo, in tempi ristretti, una nuova disposizione penale. Tuttavia, la fretta è cattiva consigliera. Allo stato attuale la disposizione, per com’è redatta, oltrepassa lo stringente limite della tassatività penale prestandosi a pericolose interpretazioni estensive. In sede di conversione, dunque, questa non potrà che essere riscritta, in maniera puntuale e precisa, dallo stesso legislatore se non, addirittura, eliminata. Diversamente, il contrasto con il principio costituzionale di tassatività è evidente, così come il contrasto con le libertà fondamentali dell’uomo e, pertanto, non potrà che subire l’intervento della Corte Costituzionale.