Black Panther: Wakanda Forever è un film con un grande fardello sulle spalle. Chadwick Boseman, interprete del primo Black Panther, è venuto a mancare nel 2020 a seguito di un cancro al colon.
Fa parte della vita, purtroppo: le persone si ammalano e muoiono senza poter chiudere i propri progetti. Succede a tutti, anche agli attori.
E, ora, anche ai supereroi.
In Wakanda Forever, Marvel tributa l’intero inizio del film a Boseman con tanto di logo degli studios tematizzato sull’attore, in viola – il colore di Black Panther insieme al nero – ma senza la consueta fanfara, in rispettoso silenzio.
Marvel saluta per l’ultima volta il suo eroe wakandiano con una morte toccante e dignitosa: è il primo eroe Marvel ad ammalarsi e morire off screen, non in combattimento (Jane Foster in Thor: Love And Thunder non è la stessa cosa).
Nessun recast per Boseman quindi, ed è giusto cosi. Lui è e sarà per sempre il primo e unico Black Panther: attore e personaggio, legati per sempre dal medesimo destino.
Fin dalla prima scena si mette bene in chiaro che la nuova protagonista è Shuri. L’esile sorella di T’Challa cerca di salvare il fratello creando una versione sintetica dell’erba a forma di cuore, quella sorta di ayahuasca che dà i poteri a Black Panther e gli fa fare i viaggioni psichedelici nei quali parla con gli antenati.
Fallisce, e Shuri si dà la colpa per non essere riuscita a salvare il fratello. Da evidenziare l’interpretazione di Letitia Wright, molto efficace in questo frangente.
Nel frattempo gli americani – come tutte le altre potenze – si danno un gran da fare a cercare il vibranio, dato che il Wakanda non intende esportarlo.
In tal senso il vibranio è l’equivalente dell’oro per i colonizzatori di Africa e America (o delle terre rare al giorno d’oggi) e tutti cercano di aprofittarsi del momento di debolezza del Wakanda dovuto alla morte di T’Challa.
Grazie a un macchinario inventato da Riri Williams, aka Ironheart (donna e nera, entrambe caratteristiche dei principali personaggi chiave del film), gli americani lo trovano sul fondo dell’Atlantico, attirando l’attenzione di un regno sottomarino che da secoli si stava sviluppando lontano da occhi indiscreti: Talokan, la versione mesoamericana del Wakanda.
Infatti, in maniera analoga allo Stato immaginario africano, la civiltà di questi discendenti dei Maya si basa sul vibranio, sebbene la tecnologia non appaia avanzata come quella wakandiana (la stessa lancia di Namor è di vibranio grezzo, come riferito dall’intelligenza artificiale al servizio di Shuri).
Talokan appare in maniera molto diversa rispetto alla tipica rappresentazione della metropoli sottomarina nella fantascienza classica.
Pensiamo alla città dei Gungan nel primo episodio di Guerre stellari – La minaccia fantasma. Sebbene gli abitanti siano una sorta di anfibi piuttosto buffi la città è luminosa, avanzata, sfarzosa.
Talokan invece è molto scura, illuminata da poche luci bioluminescenti e da un simulacro del Sole, alimentato a vibranio.
I talokaniani sono maya scampati al genocidio perpetrato dai conquistadores, che assumendo una particolare pianta sono diventati organismi acquatici riuscendo a nascondersi per secoli.
In maniera simile all’erba a forma di cuore, la pianta assunta dai proto talokaniani conferisce poteri sovrumani e deve le sue proprietà al vibranio. Chi ne è modificato – prole compresa – acquisisce la capacità di respirare l’acqua (ma non l’aria), pelle bluastra, forza sovrumana e una resistenza alle ferite tale da permettergli di ricevere colpi mortali per chiunque, senza morire.
Re/dio dei talokiani è Namor, mutante che ha assunto l’erba non per ingestione diretta ma attraverso il grembo della madre. Questo gli ha permesso di mantenere la capacità di respirare l’aria, con in più il bonus di due paia di ali alle caviglie che gli permettono di volare, invecchiamento rallentato e una forza almeno pari a quella di Black Panther.
Namor, contrazione dello spagnolo niño sin amor, medita la guerra preventiva alla superficie ma sa che per riuscirci ha bisogno dell’aiuto del Wakanda.
Per convincere Shuri (e per usarla come ostaggio nei confronti della regina Ramona) la fa rapire insieme a Riri Williams, per farle vedere Talokan e convincerla ad allearsi con lui.
Poco dopo c’è un dialogo tra Shuri e Namor, nel quale si avverte una nota dissonante nella narrazione. Il regista vuole dipingere Namor come un antieroe romantico e inserisce un passaggio per far intendere che tra lui e Shuri stia per nascere un sentimento, strozzato però sul nascere dall’istinto vendicativo di Namor, che intimorisce Shuri.
Alla luce di quanto accade dopo, questo twist dà la sensazione di essere campato per aria. Sembra manchi qualche passaggio, forse una o più scene tagliate per giustificarlo meglio.
Shuri e Riri Williams vengono fatte esfiltrare da Nakia (interpretata da una validissima Lupita Nyong’o) con lo zampino della regina Ramonda, che nel frattempo distrae Namor.
Namor, imbufalito per la trappola dei wakandiani, scatena una violentissima rappresaglia contro il Wakanda allo scopo di piegarli con la forza al suo volere. Mentre i suoi seminano morte in giro per la città, lui punta dritto al palazzo reale e uccide la regina Ramonda.
Piccolo inciso: in questo Wakanda Forever un’Angela Bassett in stato di grazia regala l’interpretazione della vita per la sua regina Ramonda. Chapeau.
Morta la regina, viva la regina: Shuri è la nuova sovrana del Wakanda.
Ricombinando il Dna dell’erba a forma di cuore con quello della pianta talokaniana e quello del fratello T’Challa, Shuri riesce a farla rinascere sotto forma di ogm stampato in 3d.
Lei, nonostante il pensiero razionalista che la contraddistingue, decide di assumere l’erba. Nel piano ancestrale incontra il famigliare defunto di cui, in cuor suo, ha bisogno: Killmonger.
Shuri infatti è accecata dalla sete di vendetta per la madre e chi meglio dello spietato cugino incarna questo sentimento?
L’ormai non più scettica Shuri ritorna nel mondo reale con i poteri del difensore del Wakanda e assume la sua nuova identità: non con il nero e viola del fratello, ma con il nero e oro del cugino che aveva tentato di ucciderlo.
Al di là della scelta dovuta alla logica assenza di Chadwick Boseman, associare Killmonger a Shuri rimane una scelta curiosa per un personaggio così legato a T’Challa, considerando che un’opzione naturale avrebbe potuto essere la madre morta da poco.
C’è una fase alla A-team nel quale i wakandiani preparano il loro piano e poi un consistente minutaggio di botte e cazzotti. I wakandiani stanno per perdere, Black Panther vince contro Namor, lo risparmia.
Namor però gioca sul lungo, e sa che prima o poi il Wakanda chiederà il suo aiuto, è solo questione di tempo.
Nella scena post credit (che in realtà non è altro che l’epilogo del film) scopriamo che T’Challa e Nakia hanno avuto un figlio, chiamato con poca fantasia a sua volta T’Challa.
Come da tradizione Marvel il film è in tre atti/quest: trovare lo scienziato, salvare Shuri, battaglia finale. Semplice, anche troppo: non ci troviamo certo di fronte a una trama che brilla per originalità.
Wakanda Forever è comunque una pellicola che intrattiene bene, ma per onestà intellettuale bisogna ammettere che tagliando una fetta consistente di personaggi e sottotrame il risultato finale ne avrebbe giovato. Non che si guardi l’orologio aspettando con desiderio la fine, sia ben chiaro, ma molte parti sono inutili da un punto di vista narrativo.
Pensiamo a Riri Williams, alle scenette di Ross e La Fontaine, a Namora e il suo compare o a una buona metà del tempo dedicato alle battaglie: eliminando tutto questo, il film avrebbe avuto un ritmo più adeguato al tipo di pellicola.
Il problema più grande di tutto Wakanda Forever (anche in prospettiva futura) è però la scelta di Shuri quale nuova Black Panther. Non è una questione di genere ma di physique du rôle e di attitudine personale. Letitia Wright è un’attrice talentuosa e con un buon margine di miglioramento, ma per quanto si allenerà con costanza da qui in avanti (come hanno fatto molti altri attori del Mcu prima di lei) sarà sempre evidente che non è stata scelta per quel ruolo, bensì si sono trovati a mettercela a forza.
Black Panther è agilità e potenza, una sorta di equivalente sotto steroidi di Catwoman. È molto difficile che vedremo mai queste qualità insieme, nella piccola e mingherlina Wright.
Questo discorso può risultare scomodo e al limite del body shaming, ma è la stessa Marvel ad aver creato questo sistema: i supereroi hanno delle caratteristiche fisiche precise e sebbene alcune possano essere cambiate senza stravolgimenti, altre snaturerebbero il personaggio.
Pensiamoci bene. Il pubblico ha accettato Fat Thor in quanto parodia macchiettistica di sé stesso, ma si trattava di un costume e non di un vero attore obeso. Senza considerare che non è stato un cambiamento definitivo: Thor è tornato nella forma perfetta di un allenatissimo Chris Hemsworth nel film successivo. Alla luce di questo, il pubblico accetterebbe mai un Captain America gobbo o un Hulk di un metro e mezzo? E una Vedova Nera col sorriso di Steve Buscemi?
La frase che segue può dare ancora più fastidio, il lettore è avvisato: Wright è poco adatta al personaggio per la sua struttura fisica, allo stesso modo per cui non sarebbe adatta se avesse la pelle troppo chiara.
Boom, lasciamo sedimentare questa frase per un momento.
È doloroso farlo notare, ma sebbene Marvel sia attentissima nell’includere (giustamente!) ogni tipo di minoranza nei suoi film e tra i suoi eroi, per Black Panther ha scelto di costruire non solo un personaggio ma un’intera nazione intorno a una caratteristica fisica: il colore della pelle.
Siamo onesti. Il pubblico – e la Marvel di conseguenza – trova accettabile un Captain America nero (e ci mancherebbe altro) ma troverebbe offensivo un Black Panther asiatico, o ispanico, o indiano. O, Dio non voglia, bianco.
Parole forti, che da una parte nascondono un’oggettiva sovrarappresentazione bianca tutt’ora evidentissima e che urla giustizia, dall’altra rivelano che per alcuni (Marvel compresa) l’inclusione vale solo in una direzione, senza alcuna trasversalità tra le diverse minoranze.
Questa è la prossima sfida dell’inclusività: rendere il colore della pelle una variabile del tutto ininfluente.
Ci arriveremo, è solo questione di tempo.
Al di là della presenza scenica, c’è un problema di attitudine al ruolo nella scrittura del personaggio.
Shuri può convincere come sovrana del Wakanda, è intelligente, arguta, sa tenere testa al consiglio degli anziani e può contare su un consigliere fidato come M’Baku. Nei panni di Black Panther però è impulsiva, oscura e lunatica, sebbene siano sentimenti di certo giustificabili dai due tremendi lutti che subisce.
Ciò che va evidenziato però è la sua diversa scala di valori: il suo convinto razionalismo e l’essere proiettata verso il futuro la mettono in antitesi con il personaggio di Black Panther, connesso in maniera indissolubile alle tradizioni animiste e al passato del suo popolo.
Eppure un’alternativa valida c’era, ed era di gran lunga migliore: Nakia.
Questa specie di Vedova Nera nera ha una smisurata esperienza di spionaggio e soprattutto di combattimento, caratteristiche che la rendono una Black Panther perfetta e molto plausibile.
A differenza di Shuri è legata alle tradizioni, aspetto cruciale del personaggio. Non solo: come scopriamo alla fine, è la madre del legittimo erede al trono, il che fa di lei la reggente del regno e candidata ideale al ruolo di difensore del Wakanda. Almeno finché il figlio non sarà cresciuto.
Di converso tutto questo indebolisce il ruolo di Shuri: forse abdicherà per il nipote, o forse quella che abbiamo appena profetizzata è la trama del futuro Black Panther 3: Game of Thrones.
Ma restiamo umili.
È evidente come tutto Wakanda Forever è un’enorme critica al colonialismo, vecchio e nuovo.
Le potenze che puntano alle ricchezze del Wakanda sono le stesse potenze che nel mondo reale mirano alle risorse dei Paesi in via di sviluppo. Non è un caso che la nazione che cerca con la forza di prendere il vibranio wakandiano in Mali sia la Francia, una delle potenze occidentali più attive in Africa.
La Marvel non si fa problemi a ritrarre come imperialiste un tanto al chilo le democrazie liberali occidentali, per un semplice motivo: lo può fare senza alcuna conseguenza.
Tuttavia se parliamo di sfruttamento il principale attore in Africa è la Cina, che si è poco alla volta accaparrata la maggior parte delle risorse, ha occupato l’intera economia di alcuni Paesi e ora si muove nel continente come il nuovo padrone sulla piazza.
La Marvel sceglie in maniera ipocrita di non farlo vedere, per tornaconto economico: qualsiasi critica alla Cina significherebbe la censura del film in tutto l’enorme mercato cinese.
I valori sono importanti per Marvel. Ma, a quanto pare, mai quanto i soldi.
La messa in scena è maestosa, d’impatto, ma varie parti risultano troppo finte. Citando ancora Guerre stellari, si ha la stessa sensazione e che si aveva nella trilogia prequel: troppo green screen, che la regia fatica a dissimulare.
A parte qualche problemino di disordine nelle scene d’azione, per il resto Coogler porta comunque a casa un buon risultato. Intensi primi piani si alternano a suggestivi campi larghi e panorami toccanti, sebbene la resa di alcuni interni – come ad esempio la grotta che fa da anticamera a Talokan – sono sotto tono (più per colpa della fotografia).
Bene.
Voto: 8
In generale è di buon livello. Alcune – poche – scene avrebbero meritato una nota più intimista ma risultano “smarmellate”, per citare Duccio Patané di Boris: avere luce da tutte le direzioni ha il pregio di dare grande comprensibilità all’immagine, ma anche meno profondità emotiva.
Problema opposto per le scene scure, troppo scure, come quelle sottomarine: sono sì realistiche (dopo pochi metri sott’acqua di luce ce n’è ben poca), ma siamo in un film dove c’è gente che crea soli sottomarini alimentati a materiali inesistenti, dai. Sempre nella grotta sottomarina, la luce fredda e diffusa appiattisce l’interpretazione di Huerta e Wright durante il loro dialogo. Peccato.
Alti e bassi.
Voto: 7,5
È il punto debole di questo film. La storia in sé è semplicissima (casus belli, battaglia, vittoria dell’eroe) e viene tirata fin troppo per le lunghe, inserendo personaggi e relative sottotrame inutili ai fini narrativi. Ironheart su tutti, messa lì solo per presentarla al pubblico sebbene sia in arrivo l’omonima serie.
Eppure nonostante la semplicità il film intrattiene, ma il merito è della regia che sopperisce alle mancanze di una trama scarna eppure dalla sovrastruttura barocca, che appesantisce la durata della pellicola con aggiunte fini a sé stesse, con il solo scopo di dare allo spettatore uno snack da sgranocchiare in attesa di un banchetto che, a ben vedere, non arriva mai.
Si poteva fare molto meglio di così.
Voto: 5
Le musiche della colonna sonora sono evocative, emozionanti, indimenticabili. C’è poco da fare: Ludwig Göransson è un genio. Collaboratore storico del regista Ryan Coogler e già premio Oscar proprio per il primo Black Panther – nonché storico produttore di Donald Glover, aka Childish Gambino, conosciuto sul set di Community – il giovane compositore svedese è il re Mida di Hollywood.
Il problema è che si dà più spazio alle canzoni che alle musiche. Sia chiaro, sono molto belle e azzeccate (prodotte anche quelle da Göransson, compresa quella di Rihanna, che torna a cantare dopo sei anni di pausa).
Spesso, però, sarebbe meglio limitarsi a stare sullo strumentale, anche per evitare problemi. C’è una dissonanza palese per quanto riguarda le musiche usate per Talokan: mentre narra la sua storia a Shuri, Namor dice in maniera cristallina di odiare lo spagnolo, eppure le canzoni scelte per caratterizzare il suo popolo sono proprio in quella lingua. Una scelta quantomeno incoerente.
Prenderà molti premi.
Voto: 9
Bene ma non benisismo per quanto riguarda gli effetti speciali. La realizzazione è pregevole ma c’è troppo green screen. È un difetto diffuso negli ultimi prodotti Marvel: la sensazione è sempre più quella di assistere a pellicole d’animazione con le facce degli attori incollate sui personaggi.
Ultima citazione del franchise di Star Wars: non serve uscire dalla Disney per capire che il green screen va gestito con parsimonia e gli ultimi prodotti della Lucasfilm funzionano molto meglio di Wakanda Forever lato FX, sia per l’uso più esteso di effetti pratici, sia per l’uso dell’innovativo The Volume sviluppato da Industrial Light And Magic per The Mandalorian. Ce l’hanno in casa, farebbero bene a usarlo.
Da sottolineare l’ottima resa di Namor: c’erano dubbi sulle sue alette alle caviglie, invece funzionano benone.
Livelli altissimi per quanto riguarda i costumi, meravigliosi sotto ogni punto di vista, così come il trucco.
Voto: 8
Letitia Wright
In alcuni momenti è intensa e convincente, come all’inizio del film. In altri è inadeguata, per esempio nei panni di Black Panther, personaggio per cui non è per niente tagliata.
Luci e ombre.
Voto: 7,5
Tenoch Huerta
Non è facile rendere un personaggio che per il grande pubblico è la brutta copia di Aquaman. Ci riesce: il suo Namor è convincente, sanguigno, cazzutissimo ma anche romantico. E lunatico, com’è giusto che sia questa sorta di semidio maya, un antieroe assetato di sangue che con ogni probabilità seguirà un arco di sviluppo alla Vegeta di Dragon Ball.
Bravo.
Voto: 8+
Angela Bassett
Regala la miglior prestazione in questa pellicola. Riesce a rendere con grande intensità il dolore della regina Ramonda per le sue perdite, ma anche la sua risolutezza, l’amore per il suo popolo e per la figlia, il coraggio.
Magnifica.
Voto: 9
Lupita Nyong’o
Chissà se Nakia è stata tenuta in disparte dagli altri film per volontà della Nyong’o o della Marvel. Sta di fatto che nel filone del Wakanda è uno dei personaggi con più potenziale.
Nyong’o, già premio Oscar, è un’attrice dal grandissimo talento, senza ombra di dubbio sprecata in un ruolo secondario come quello di Nakia. Lei è la Black Panther perfetta, non c’è discussione: sa dare alla propria interpretazione calore ma anche risolutezza e le vengono bene le scene drammatiche tanto quanto le gag e le scene d’azione. Ha già una grande esperienza con la motion capture e un physique du rôle perfetto.
Datecene di più.
Voto: 8,5
Danai Gurira
Okoye è uno dei personaggi più riusciti del filone wakandiano. Molto amata dai fan, nei vari prodotti Marvel abbiamo avuto modo di approfondire il suo senso del dovere e il suo istinto di protezione.
Non è solo buona scrittura: Gurira è il motivo di questo successo.
Ha sempre messo nella sua interpretazione un certo eccesso espressivo e ha sempre funzionato, ma in questo Wakanda Forever è un po’ troppo.
A volte, less is more.
Voto: 7,5
Dominique Thorne
Interpreta un personaggio inutile in questo contesto ma non è colpa sua. Nonostante abbia poco minutaggio, per quel poco che si vede appare calata nel personaggio e convincente. Vedremo nella serie dedicata al suo personaggio se sarà davvero all’altezza.
Non male.
Voto: 7,5
Martin Freeman
La capacità del Mcu di sprecare attori pazzeschi in ruoli del piffero raggiunge l’apice con il Ross di Martin Freeman. È un attore dal grandissimo talento naturale, performante sia in ruoli drammatici che comici.
Vederlo relegato a una sottotrama filler è davvero un peccato.
Voto: 8,5
Bonus: Michael B. Jordan
Il suo è poco più di un cameo, ma riporta alla luce il grande problema del primo Black Panther, ovvero il fatto di aver dato la luce a uno degli antieroi più affascinanti visti finora solo per bruciarlo subito.
È davvero un gran peccato, soprattutto perché Jordan è un attore bravissimo, perfetto per un ruolo che avrebbe potuto realizzare un arco di redenzione tale da diventare una perla nel Mcu.
Nella sua breve scena dimostra di nuovo la sua bravura.
Che spreco.
Voto: 8,5
Voto al cast, ponderato in base al minutaggio: 8
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