Nelle ultime settimane in Italia si è tornato molto a parlare della questione migranti, messa decisamente in risalto dal cambio di atteggiamento che è arrivato con l’insediamento del nuovo governo di destra a trazione Fratelli d’Italia. È balzata all’attenzione dell’opinione pubblica lo scontro tra Italia e Francia sulla questione accoglienza migranti a bordo della Ocean Viking. Un terzo dei passeggeri saranno “ricollocati” in Francia, un altro terzo in Germania e «altri Paesi europei hanno espresso la loro volontà di contribuire», aveva spiegato il ministro degli Interni francese, Gerald Darmarin il giorno prima dello sbarco a Tolone, denunciando la «scelta incomprensibile» dell’Italia che si è rifiutata di «rispondere alle molteplici richieste di assistenza da parte della nave mentre era in acque italiane».
Si inseriscono in questo quadro di durezza nei confronti dell’accoglienza dei migranti le varie proposte del ministro dell’interno Piantedosi, storicamente una figura molto vicina al leader della Lega Matteo Salvini; che in un’intervista a Corriere TV ha dichiarato «Prenderemo contatti, attraverso i canali diplomatici, con i Paesi di partenza dei migranti per negoziare i termini di possibili accordi», facendo intendere che l’approccio è quello riconducibile alla linea Minniti, l’ex ministro dell’Interno del Pd che aveva negoziato un accordo con la Libia per fermare il flusso migratorio dal Paese nordafricano verso l’Italia, accordo che prevedeva la costruzione sul suolo libico di veri e propri campi di concentramento dove i migranti venivano rinchiusi e torturati.
Da circa 20 anni la questione migranti è balzata prepotentemente nell’occhio del ciclone, con una presenza sui media massiccia, spaccando in molti frammenti l’opinione pubblica e dando vita anche a posizioni di stampo decisamente discriminatorio. Ciò che ha portato a questo clima rovente è figlio di ragioni storiche molto profonde e mai affrontate del tutto dal mondo occidentale, che difficilmente si è preso la responsabilità di fare i conti col proprio passato colonizzante.
Un moto di speranza poteva arrivare dall’Unione europea, un luogo dove i vari Stati nazionali avrebbero potuto incontrarsi e fronteggiare in maniera seria e solidale, soprattutto tenendo in piena considerazione i diritti umani, la questione immigrazione. L’obiettivo di questo articolo non è quello di approfondire nello specifico la politica immigratoria dell’Unione europea, ma portare un esempio di come il modus operandi europeo si sia del tutto distaccato da quelle che potevano essere le aspettative più ottimiste.
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L’accordo sull’immigrazione Ue-Turchia
L’accordo sull’immigrazione tra Ue e Turchia risale al 18 marzo del 2016, quando sul sito del Consiglio europeo fu pubblicato un comunicato stampa che andava a illustrare le novità dell’accordo tra le due parti. Al fine di contrastare il modello di attività dei trafficanti e offrire ai migranti un’alternativa al mettere a rischio la propria vita, decisero di porre fine alla migrazione “irregolare” dalla Turchia verso l’Ue: per conseguire questo obiettivo concordarono di introdurre dei nuovi strumenti di contrasto all’immigrazione irregolare. In primo luogo, tutti i nuovi migranti irregolari che avevano compiuto la traversata dalla Turchia alle isole greche a decorrere dal 20 marzo 2016 sarebbero stati rimpatriati in Turchia, nel pieno rispetto del diritto dell’Ue e internazionale, escludendo pertanto qualsiasi forma di espulsione collettiva. I migranti che non avessero fatto domanda d’asilo o la cui domanda fosse stata ritenuta infondata o non ammissibile ai sensi della direttiva sarebbero stati rimpatriati in Turchia. Da parte sua, la Turchia aveva adottato qualsiasi misura necessaria per evitare nuove rotte marittime o terrestri di migrazione irregolare verso l’Ue.
In cambio di questo impegno a contrastare le rotte migratorie verso le isole greche, l’Ue aveva destinato 3 miliardi di euro alla Turchia per progetti concreti in merito alla gestione dei migranti arrivati sul suolo turco.
L’accordo si fondava sul postulato che la Turchia fosse un Paese sicuro per i rifugiati e i richiedenti asilo e impegnava il governo turco ad adottare tutte le misure necessarie per impedire l’apertura di nuove rotte marittime o terrestri verso l’Ue e a cooperare con l’Ue stessa al fine di migliorare le condizioni umanitarie in Siria.
La strana natura giuridica dell’accordo
Quello che ha sempre fatto discutere in merito all’accordo tra Ue e Turchia è la sua natura giuridica. Utilizzando un approccio giuridico, si può concludere che non si tratti veramente di un accordo nel proprio senso del termine giuridico, ma di qualcosa assimilabile a una lettera di intenti, di portata più programmatica che precettiva, ovvero a una semplice ricognizione di accordi, e quindi di conseguenti obblighi, già esistenti.
Qualcuno potrebbe azzardare che, non essendo un vero e proprio accordo, da tale dichiarazione potrebbero non scaturire degli impegni vincolanti per l’Unione europea. Tuttavia, se è già significativo che, sempre sul piano formale, il documento faccia espresso riferimento alla sua “conclusione” da parte dell’Unione europea, non può certo trascurarsi che esso istituisca una serie di nuovi impegni per l’Unione, soprattutto in merito a quello preso con la Turchia sull’erogazione dei 3 miliardi di euro ad Ankara.
La decisione da parte dell’Ue di usare la parola “dichiarazione” all’interno del comunicato stampa può essere vista come strategica: l’accordo, in parola, non è stato concluso secondo le procedure previste principalmente dall’articolo 218 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (Tfue), che costituisce la base giuridica della conclusione da parte dell’Unione di accordi internazionali con Paesi terzi produttivi di impegni giuridicamente vincolanti. Ciò avrebbe comportato un iter sicuramente più lungo e complesso e, dato il clima di emergenza che si respirava, aspettare risultava impossibile. In questo modo è stato possibile aggirare la procedura prevista dall’articolo 218.
Un accordo che forse non rispetta i diritti umani
La dichiarazione Ue-Turchia è stata da sempre oggetto di accesi dibattiti. Ci si è chiesti, in primo luogo, se l’accordo sia conforme alla Carta dei diritti fondamentali dell’Ue e se rispetti o meno il principio di non-refoulement alla luce delle condizioni in cui versano in Turchia i richiedenti asilo e i rifugiati.
Il principio di non-refoulement, sancito dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra del 1951 sullo status di rifugiato e ribadito dall’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu), si traduce nell’obbligo di non trasferimento, diretto o indiretto, di un rifugiato o di un richiedente asilo in un luogo nel quale egli rischia di essere perseguitato, o di essere sottoposto a tortura o ad altre pene e trattamenti inumani o degradanti, a causa della sua razza, della sua religione, della sua nazionalità, della sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o delle sue opinioni politiche.
I Paesi europei sono obbligati a verificare se i respingimenti dei migranti dal proprio territorio avvengono in linea con questo principio. Il problema dell’accordo tra Ue e Turchia risulta dal fatto che, secondo la dichiarazione, la Turchia viene considerato come un Paese sicuro. Ma è possibile definire la Turchia come Paese sicuro? Molte Ong, oltre a denunciare casi di violazione del principio di non-refoulement, sostengono che in Turchia i rifugiati non siano sempre al sicuro da trattamenti inumani e degradanti. Inoltre, per quanto riguarda invece la possibilità di richiedere lo status di rifugiato secondo la convenzione di Ginevra, la Turchia ha sì ratificato la Convenzione e il suo Protocollo del 1967, ma mantiene una limitazione geografica per cui lo status completo è riconosciuto solo a chi proviene da un Paese membro del Consiglio d’Europa, mentre chi proviene da un Paese non europeo può vedersi riconosciuto lo status di “rifugiato condizionato”, che permette di risiedere solo temporaneamente in Turchia e garantisce un set limitato di diritti.
In conclusione, si può notare che l’approccio dell’Ue alla questione immigrazione segue una linea poco pragmatica e quasi per nulla solidale, con un’impronta di contrasto verso gli immigrati, e non di accoglienza; un approccio che riflette i moti sovranisti dei singoli Paesi membri e che non fa altro che demonizzare la figura dell’immigrato. Finché da Bruxelles si tenterà di contrastare l’immigrazione, a maggior ragione lasciando in mare o in terre per nulla sicure centinaia di migliaia di persone, non ci si può aspettare nulla diverso dai comportamenti dei singoli Paesi membri.