Quando Disney decise di dedicare una serie a Cassian Andor, in molti pensarono che la probabilità di assistere a una schifezza sarebbe stata elevatissima. È un personaggio che viene sì dal miglior film di Star Wars da quando Lucasfilm è stata acquisita da Disney – Rogue One – ma non è né il protagonista della pellicola né un personaggio noto per il suo carisma. Anzi, era una spia senza scrupoli come tante altre già viste in tanti film. Si intuiva che avesse avuto un passato di cui non andava fiero e che lo ritenesse un male necessario per un fine superiore: il cliché dell’antieroe a fin di bene, che redime i suoi peccati grazie al sacrificio.
Non certo un punto di partenza entusiasmante; tuttavia questa serie è una delle uscite migliori della Disney negli ultimi anni.
Sembra che questa prima stagione ne racchiuda tre (forse c’è stata qualche operazione di fusione in fase avanzata di scrittura, non è da escludere). Ogni atto infatti ha una sua efficace chiusa: l’assalto ad Aldhani, la fuga da Narkina 5 e il finale vero e proprio. Con un po’ di scrittura in più, in una serie normale questi eventi sarebbero stati degli ottimi finali di stagione, ma Andor non è una serie normale.
Parte come un heist movie, evolve in un romanzo distopico a mezza via tra 1984 e i racconti dei lager nazisti per poi avvicinarsi sul finale a tematiche più vicine al mondo starwarsiano e alle dinamiche della Ribellione (o della Resistenza, per usare un termine più familiare).
Andor parte lento, forse troppo e i primi episodi per molti sono risultati noiosi. A posteriori, però, ha tutto molto senso: la scrittura è un crescendo implacabile che senza rendersene conto ti avvolge, ti strega, costruendo mattone per mattone (ogni riferimento alle tradizioni di Ferrix è voluto) personaggi e filoni narrativi con perizia e senza mai lasciarsi andare al fan service tipico delle altre serie del franchise.
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Da The Mandalorian a The Book Of Boba Fett a Kenobi, le serie di Star Wars vivono di rendita pescando a piene mani dal passato. Andor questo non lo fa, e costruisce invece una storia originale dove i pochissimi riferimenti alle altre opere sono lì perché funzionali alla storia (con delle piccolissime eccezioni, tipo Mon Mothma che cita Canto Bight).
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Non c’è spazio per Jedi o Mandaloriani qui, solo persone normali immerse in un mondo brutale, oppresse da un Impero che è la rappresentazione di tutte le tirannie.
In Andor non c’è di fondo una sfida tra bene e male in senso assoluto. Qui, di base, tutti sono umani e di conseguenza imperfetti. Più che buoni e cattivi, qui ci sono cattivi e meno cattivi e di eroi nemmeno l’ombra (se non il povero Nemik).
Cassian Andor non sarebbe mai diventato ribelle se non fosse stato prima per i soldi e poi per esserci stato di fatto obbligato dalle circostanze. Mon Mothma non è la santa donna vista nei film, ma una senatrice con uno scopo e disposta a vendersi la figlia per arrivarci, per quanto a malincuore. Luthen Rael, personaggio nuovo scritto e interpretato in maniera superlativa, è quanto di più simile a un Sith si possa immaginare, eppure quello che fa è per un bene superiore: sa benissimo che la sua anima è dannata per sempre a causa delle nefandezze che compie, ma come un Cristo che prende su di sé i peccati del mondo lui è pronto a sacrificarla per salvare gli altri, anche a costo di mandare al macello amici e alleati con un cinismo degno de L’arte della guerra purché la scintilla della ribellione non si spenga.
Quando si parla di ribellione (o meglio, di rivoluzione) ci sono sempre due lati della medaglia: da una parte si leggono gli eventi negativi come un male necessario, dall’altra come atti di terrorismo.
In tutta la saga di Star Wars questo contrasto non è centrale, anzi, la Ribellione è quasi santificata. In Andor invece vediamo il suo lato oscuro: attentati, esecuzioni sommarie, ricatti, rapine, traffico di armi. E terrorismo, quello vero, quello che ha lo scopo di generare paura non solo nel tiranno.
Luthen incarna questo lato “sporco”, quello che nei film patinati adatti ai bambini si preferisce lasciare in disparte. Gioisce per il pugno di ferro dell’Impero dopo il colpo di Aldhani, perché la gente deve soffrire per capire che ribellarsi è l’unica via, da lui stesso segnata attraverso le sue macchinazioni.
Al contempo però Luthen soffre per tutto questo, per quello che è costretto a fare, e Stellan Skarsgård riesce a rendere questa dualità in maniera impeccabile.
Dall’altra parte della barricata c’è l’Impero. Una macchina implacabile, scientifica, costituita da una burocrazia gargantuesca che ha lo scopo di deresponsabilizzare i singoli dai piccoli atti di disumanità che il loro ruolo prevede. Sono piccoli carnefici, ma tutti complici della grande tirannia: si tratta di meccaniche reali, già viste in piccole e grandi nefandezze compiute nella Storia dell’umanità.
Nel romanzo Le benevole, ad esempio, Jonathan Littel porta il lettore all’interno della normalizzazione della disumanità nel lavoro sul campo delle SS durante la seconda guerra mondiale, attraverso gli occhi del suo protagonista (lui sì crudele davvero). Allo stesso modo, Andor trasmette allo spettatore il senso di distaccamento dalla crudeltà dei burocrati imperiali: ognuno si limita a fare il proprio mestiere, la propria fettina di mostruosità così piccola da essere tollerabile senza troppe conseguenze per la psiche. Ma, tutte insieme, fanno una carneficina.
L’Impero appare da una parte come una presenza costante, oppressiva e tangibilissima nella vita quotidiana delle persone. Dall’altra è una struttura così grande da risultare astratta, una macchina che sembra avere un algoritmo che la fa funzionare da sé, tanto che l’Imperatore viene a malapena citato.
In particolare, l’atto che si conclude su Narkina 5 è esemplificativo di questo meccanismo di deresponsabilizzazione del singolo. Dall’imperiale che arresta Cassian con una scusa, allo svogliato giudice che spedisce innocenti su pianeti-prigione con pene spropositate sulla base di accuse ridicole, ai carcerieri che da una parte non si fanno scrupoli a “friggere” i detenuti ma dall’altra ritengono Narkina 5 una prigione quasi paradisiaca per i prigionieri, nascondendo a loro stessi la disumanità del metodo di lavoro assassino che vi si svolge.
Tutto lo svolgimento di questo atto è magistrale, un pezzo di serialità di eccellente livello. Lo spettatore viene catapultato in un mondo fatto del candore delle luci bianchissime della prigione ma al contempo dell’implacabile volontà dell’Impero nello spezzare l’anima delle persone, nel piegarne la volontà per farne schiavi obbedienti e rassegnati, senza alcun scampo.
Tony Gilroy, attraverso Andor, con la scusa di alieni e navicelle spaziali parla di tematiche attualissime, più legate al nostro mondo che a quello creato dalla geniale mente di George Lucas. Lo fa con una qualità generale pazzesca e con la scrittura (quasi) impeccabile di cui ha già di mostrato in passato di essere capace.
Il livello è altissimo in tutti gli episodi. Alla direzione si alternano tre registi: Toby Haynes, Susanna White e Benjamin Caron, quest’ultimo che la spunta sugli altri, complice anche il fatto che si occupa degli episodi scritti meglio.
In ogni caso si tratta di una regia intimista, fatta di primi piani, inquadrature pulite, composizioni delle scene ben studiate, eleganti. Impeccabile la fotografia, l’uso dei colori per caratterizzare le differenti location e l’uso sapiente delle luci per dare profondità ai personaggi.
Tante le citazioni, in primis in apertura con Morlana One, presa pari pari da Blade Runner.
Eccellente la scelta di girare molto in esterno.
Voto: 9
Siamo vicini alla perfezione, ma non viene raggiunta a causa di un avvio troppo lento. Se George Lucas ha raccontato come una democrazia diventa dittatura e come questa dittatura cade, Andor racconta come nasce la Ribellione, le nefandezze che deve compiere, i tanti (forse troppi) punti in comune con il proprio nemico e, a conti fatti, come tutto questo verrà in seguito lavato via in nome di un finto candore per la nuova repubblica.
La costruzione dei personaggi vecchi e nuovi è magistrale, le story line coerenti e ben sviluppate, i singoli episodi funzionali, compresi quelli che, a posteriori, risultano molto meno noiosi che alla prima visione.
Voto: 9+
Nicholas Britell se la cava benissimo e tira fuori musiche sempre adatte, presenti ma mai invasive. C’è originalità e un uso poetico del pianoforte e degli archi, pur mantenendo un sottile fil rouge con le sonorità più classiche del mondo di Guerre stellari.
Rimanendo in casa Star Wars, purtroppo e per poco non eguaglia un fuoriclasse come Ludwig Göransson.
Voto: 8,5
Qui tutti dovrebbero imparare, in primis in casa Disney (sì, Marvel, proprio tu): pochissimo green screen, Cgi ridotta al minimo indispensabile, molto girato in esterno e molti effetti speciali pratici.
Il risultato è perfetto: tutto è coerente e credibile, molto più di tanti blockbuster con budget per gli FX di molto superiori. La sola scena dell’Occhio ne è un esempio perfetto.
I costumi sono qualcosa di spettacolare, certi abiti meriterebbero i red carpet di Parigi e Milano per lo stile e la fattura, in particolar modo quelli di Coruscant. Eleganza, innovazione e ricerca al fine di dare un carattere unico al prodotto audiovisivo attraverso il vestiario: raramente si è vista un’attenzione del genere in questo campo, in un prodotto seriale.
Anche lato trucco siamo alla perfezione, nessuna sbavatura, nemmeno nel presentissimo trucco prostetico che tante difficoltà può dare.
Voto: 10
Diego Luna: Cassian Andor
Si trova tra le mani il protagonista, un personaggio di cui a nessuno frega niente dopo Rogue One. Fa il meglio che può: alcune parti sono toccanti ma spesso l’interpretazione è monocorde, manca di spessore, soprattutto sulla voce.
Voto: 8-
Stellan Skarsgård: Luthen Rael
Pazzesco. Passa da espressioni degne del Barone Vladimir Harkonnen (che interpreta nel franchise di Dune) alla solarità fintissima dell’antiquario di Coruscant. Un personaggio complicatissimo da interpretare, pieno di sfumature contrastanti tra cui saltellare. Lui ci riesce in maniera magistrale, cambia maschera in un istante e dimostra tutto il suo talento.
Voto: 10
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Genevieve O’Reilly: Mon Mothma
Prestazione eccellente, rende tanto la determinazione quanto il terrore che deve sopportare il personaggio, le scelte durissime che deve fare e le tante facce che deve avere.
Voto: 9
Adria Arjona: Bix Caleen
Le viene naturale la bellissima Bix della prima parte della stagione, e riesce a rendere molto bene la donna spezzata che è dopo le torture degli imperiali.
Brava, ma c’è un discreto margine di miglioramento (che è di certo alla sua portata)
Voto: 8
Denise Gough: Dedra Meero
Vestire i panni di un personaggio odioso e renderlo con naturalezza non è affatto semplice, non tutti gli attori ne sono in grado. Lei sì.
Voto: 9-
Kyle Soller: Syril Karn
Salvo alcune (poche) scene, sembra preso da Gli occhi del cuore. Ha una sola espressione: basito.
Voto: 5
Andy Serkis: Kino Loy
Siamo fuori scala. Non avrà in mano un personaggio sfaccettato come Luthen o Mon Mothma, eppure Serkis da una profondità inarrivabile alla sua interpretazione.
Datecene ancora, per piacere.
Voto: 10
Il cast presenta molti altri attori secondari il cui livello è comunque in media molto elevato.
Voto al cast, ponderato in base al minutaggio: 9
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