Quando nel 1961 il giovane psichiatra Franco Basaglia assunse la direzione del manicomio di Gorizia, l’istituto funzionava come un carcere. Era collocato ai margini della città, come a nascondere la struttura alla vista della “società civile”. La gente di Gorizia – all’epoca una città con 40.000 abitanti – di lì a poco si trovò ad assistere, insieme al resto del Paese, a una vera e propria rivoluzione, che culminò nel 1978 con l’approvazione della legge 180 e con la chiusura dei manicomi. Lo stravolgimento e la successiva scomparsa dei manicomi è stato un viaggio troppo lungo per essere riassunto in un solo articolo. Qui vogliamo restringere il campo e raccontare una piccola parte di questo percorso: la storia del “Picchio”. Procediamo però con ordine.
La situazione che Basaglia trovò a Gorizia gli ricordò il periodo che nel 1944 aveva trascorso in una prigione di Venezia, perché colpevole di essere antifascista. Scrisse di aver ritrovato nel manicomio lo stesso «odore di morte, di merda» che per sei mesi aveva sentito in carcere.
I pazienti erano prigionieri delle mura del manicomio. Non avevano controllo su nessun aspetto della loro vita, sin dal principio. Appena entrati venivano rasati a zero e spogliati persino degli oggetti a cui erano più legati. Non era permesso tenere alcun effetto personale, neppure la fede nuziale. Non potevano ricevere visite o uscire dai reparti. Torturati con “trattamenti” crudeli e di nessuna efficacia, i pazienti erano soli e dimenticati dal mondo intero: erano morti che respiravano. Il comportamento abulico che adottavano era il sintomo della totale rassegnazione a un regime carcerario permanente.
Il codice penale fascista del 1930 equiparava il ricovero a un precedente penale e il sistema italiano era governato da due leggi prefasciste, risalenti al 1904 e al 1908, che imponevano il ricovero forzato per le persone “pericolose a sé e agli altri” e per coloro che erano causa di “pubblico scandalo”. La legge dava al direttore del manicomio un potere pressoché totale sui degenti.
La rivoluzione di Basaglia ebbe inizio con un atto estemporaneo. Lo raccontò così Antonio Slavich, primo collaboratore di Basaglia, nel libro La scopa meravigliante: «Nel primo giorno da direttore di Gorizia, all’infermiere capo che gli sottoponeva il registro delle contenzioni della notte precedente disse: “E mi no firmo”. Basaglia con quel “no” si ribellò contro il suo stesso potere e decise di non esercitarlo. Perlomeno, non in maniera convenzionale. Su sua iniziativa si abbandonarono le gerarchie interne e le terapie repressive, i camici furono eliminati e i reparti dell’ospedale vennero aperti».
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Ai pazienti furono restituiti gli effetti personali e forniti oggetti che erano sempre stati proibiti, come pettini e specchi. Un gesto quotidiano come quello di specchiarsi restituiva alle persone parte di quel controllo sul proprio corpo che era stato loro negato. Nell’ospedale si aprivano nuovi spazi ricreativi, come un bar ricavato in una vecchia legnaia ristrutturata e un campo da calcio. Nelle sale comuni comparvero televisori, radio e un tavolo da ping-pong. Furono ideati servizi innovativi: una biblioteca, un parrucchiere e un centro di igiene mentale nel parco. Si organizzavano eventi come gite feste e sagre. La possibilità di essere liberi non garantiva però il desiderio di libertà. Tra i pazienti c’era chi faticava ad adattarsi alla nuova realtà: vedere aperte le porte delle stanze, fino ad allora chiuse, provocava disagio in alcuni di loro, che si rifiutavano di uscire dal reparto.
Non bastava togliere le sbarre, rimuovere steccati e cancelli. Dovevano essere i pazienti a prendere il controllo e ad abbattere le barriere. «Noi abbiamo messo le serrature alle porte, ma sono loro a dover girare la chiave», scrisse Basaglia. L’accettazione della libertà, per quelli che dimostravano una legittima paura a rapportarsi con un mondo nuovo, fu possibile grazie alla mobilitazione collettiva. Nacque così un circolo di auto-aiuto che si chiamava Aiutiamoci a guarire e, tra le altre iniziative promosse in questo humus culturale, ci fu la creazione di un giornale dei pazienti. Il Picchio, chiamato così forse per assonanza con Il Piccolo – il quotidiano più diffuso a Gorizia – era un periodico curato dai pazienti. Il primo numero, uscito nell’agosto del 1962, era di sole tre pagine. Man mano però divenne una rivista più lunga, sulla quale si raccontavano le assemblee dei pazienti. «L’ospedale si sta trasformando e tutti noi dobbiamo cercare di rendere operante questa trasformazione» era l’appello del Picchio alla comunità della struttura, che diventava sempre meno manicomio e sempre più casa di cura.
«L’ospedale è un piccolo paese con tutte le necessità e le esigenze che ogni comunità presenta. In esso vive una popolazione in continuo mutarsi: alcuni escono, altri entrano. Bisogna che coloro che entrano trovino qui un ambiente adatto che li aiuti a reagire, a lottare per vincere». (Il Picchio, 8 marzo 1963)
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Quella che era stata una prigione stava diventando una piccola città e Il Picchio documentava la progressiva riappropriazione degli spazi comuni da parte dei pazienti. Erano “i matti” a spezzare le proprie catene. In quest’ottica l’esistenza del Picchio era un attestato della vitalità nella comunità terapeutica di Gorizia. Testimoniava la nuova realtà della struttura ma era anche uno spazio utile ai pazienti per discutere l’istituzione stessa del manicomio. Per la prima volta gli “alienati mentali”, come venivano definiti, potevano far sentire la loro voce. Il Picchio si dichiarava «redatto dai degenti dell’ospedale psichiatrico di Gorizia» e – nonostante la sede ufficiale fosse casa Basaglia – il giornale veniva realizzato interamente all’interno dell’istituto. Era diretto con passione e dedizione da Mario Furlan (detto Furio), che divenne uno dei leader del movimento di pazienti sorto nella struttura.
Non bisogna però pensare che la rivista contenesse solo articoli che riguardavano la riforma dell’ospedale. C’erano articoli di stampo teorico, riflessioni sull’origine della malattia mentale e sui motivi della stigmatizzazione dei pazienti psichiatrici. Lo stesso Basaglia ne scrisse alcuni. Secondo lui e la sua équipe le diagnosi mediche andavano “messe tra parentesi” per poter costruire un rapporto con i pazienti e ascoltare le loro storie. Proprio con questo scopo Il Picchio pubblicava anche articoli che parlavano di cose semplici ma personali, come la sensazione di libertà che una passeggiata nel parco poteva trasmettere. Sul Picchio il signor Gaetano T. poteva dirsi «uno che dall’inferno sia passato al paradiso» e Doralice C. poteva esprimere la sua gioia nel tornare a camminare per le strade di Gorizia, dove dal 1935 non aveva più messo piede.
Con spirito critico Il Picchio pose spesso l’accento sulle grandi contraddizioni interne al progetto della comunità terapeutica. La libertà che i pazienti sperimentavano era solo parziale, mai completa. Basaglia aveva migliorato le condizioni dei degenti creando per loro quella che egli stesso definì «una gabbia dorata», senza risolvere il problema. La strada per la chiusura definitiva dei manicomi era ancora lunga da percorrere, mentre la nostra storia si interrompe nel 1966 con l’ultima pubblicazione della rivista. Il Picchio chiuse i battenti ma l’esperienza di Gorizia andò avanti e fu racchiusa nel 1968 nel libro L’istituzione negata che riportava sia le testimonianze degli psichiatri sia quelle dei pazienti, raccogliendo così l’eredità del giornale. L’archivio dell’ospedale non ha conservato una serie completa dei numeri del Picchio e, nonostante l’appello lanciato dalla biblioteca di Gorizia per reperirne le copie, la collezione è tuttora parziale. Il giornale dei pazienti oggi sembra il piccolo tassello di un grande mosaico, ma è una realtà che merita di essere ricordata, perché la rivoluzione culturale di Gorizia passò anche dalle pagine del Picchio.
L’articolo si basa sul libro dello storico inglese John Foot La Repubblica dei Matti, pubblicato nel 2014 da Feltrinelli.
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