Dopo gli applausi e i riconoscimenti a Venezia 79, dal 23 novembre è in sala Bones and All di Luca Guadagnino. Il regista Leone d’Argento alla regia in laguna conquista subito il botteghino distendendo il romanzo omonimo di Camille De Angelis nelle praterie verdeggianti del MidWest. Qui fa zigzagare su un track rubato gli adolescenti Marene (Taylor Russell) e Lee (Timothée Chalamet), figli rinnegati alla ricerca di un’identità ancora da plasmare.
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La trama
Tutto comincia quando Marene, a un pigiama party, azzanna il ditino smaltato di una compagna: è la rivelazione della sua “fame carnivora”. L’abbandono paterno e la fuga seguente la consegnano all’inquietante, ma empatico Sully (solito impeccabile Mark Rylance). Anziano mentore – che la costumista Giulia Piersanti rende un hippy tirolese – la annusa dal suo villino in collina vagamente hopperiano per istruirla alla legge dello sbranamento per sopravvivenza. L’efebico Lee, invece, colto in primi piani di rara intensità, è il contraltare di questa setta: rappresenta per Marene l’innamoramento senza divoramento e il tramite per elaborare e controllare l’eredità del destino antropofago.
La ricerca della protagonista, perciò, tra terrore e eccitazione, tra Joyce e Tolkien, è il laccio narrativo di tutte le altre spinte centrifughe: la spietatezza dei riti cannibalici, l’istintualità sensoriale dei corpi come mappa della preistoria famigliare. Guadagnino coglie tutte queste sfumature con uno sguardo empatico, mai moralista, che non rinuncia mai all’umanità. Neanche quando le sue creature la calpestano.
Sentiero autoriale
Nel suo settimo lungometraggio, ennesimo adattamento letterario, Guadagnino impasta brillantemente più generi e continua a tracciare un itinerario autoriale coraggioso e riconoscibile sulle tracce di un’adolescenza inquieta e senza riferimenti. Il road movie, così, si tinge di melodramma e l’horror è sospeso in punte di lirismo paesaggistico mai strabordanti.
Dimostra di sapere alzare il pedale al momento giusto, il cineasta siciliano bilanciando elegante formalismo con la valorizzazione di una vera drammaturgia del sonoro. Così illanguidisce la visceralità delle scene carnivore con il contrappunto musicale di Trent Reznor e Atticus Ross. E stempera possibili derive splatter col lirismo sospeso dei campi lunghi della fotografia in pellicola di Arseni Khachaturan.
Vibrante romanzo di formazione compattato dalla sceneggiatura cadenzata del fido Kajganich, lucida, però, forse troppo acriticamente la favella dell’amore come unica forza positiva. E lo fa cesellandogli intorno un’umanità alla deriva, balorda, bavosa, senza redenzione. Per di più, il più classico vagabondaggio nell’America reaganiana anni Ottanta, così sconfinata e inconoscibile perché estroflessione dei paesaggi interiori dei ragazzi, fiorisce su un già ricco sottobosco cinefilo (un Pierrot le fou ma più estremo, con l’istinto anarcoide di Thelma & Louise e una spruzzata di Trouble Every Day).
Ma Guadagnino non rinuncia a ibridare questo scenario con i temi che dà sempre agitano la sua poetica. La giovinezza e la necessità di “uccidere” i padri per poterli perdonare. L’assolutezza dell’amore e la verità dei sensi. L’estraniamento dalla massa capitalistica e l’obbligo di scendervi a patti. L’infinità minacciosa della Natura e l’erranza apolide dell’individuo. La solitudine (dissanguante qui) e l’incontro con l’Altro da sé (in sé). L’identità rivelata dalla fisicità e l’accettazione epica, quasi da tragedia attica, del proprio destino.
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Allargare lo sguardo
C’è tutto questo in Bones and All. E in più la spinta ad allargare sempre lo sguardo per annettere altro visibile, altre strade, altre pianure, altra umanità, un primo piano, una panoramica alla volta. Il risultato è un film lisergico e potente; picaresco nei ritmi, sentimentale nei temi e formalista nello sguardo. Così Guadagnino perdona e sublima senza camuffarla la potenza orrorifica del desiderio dei suoi amabili cannibali.