Passione, dolore, drama. Alcune componenti del calcio sembrano uscite fuori da un romanzo giallo o noir. Ma la vita non è un libro e, molto spesso, le nostre esperienze accelerano il passaggio dall’illusione alla realtà, ovviamente non sempre nei modi che desideriamo. Tra le carriere brillanti e mediaticamente silenziose del pallone spiccano quelle di uomini acuti e innovativi, in grado di stupire solo con la forza dell’attenzione al dettaglio e la grande capacità di abnegazione. Una di queste storie riguarda Stefano Avincola, che di calcio ne mastica da tantissimo tempo. Un veterano dei settori giovanili e delle guide tecniche, ora potenzialmente pronto a esplorare nuovi lidi pallonari, che non siano solo mete esotiche ma terre in evoluzione in cui esportare calcio di alto profilo.
Molto del cuore di mister Avincola appartiene al biancoceleste della Lazio. «Ho iniziato nel 2000 e fino al 2011 ho fatto la trafila del settore giovanile con i biancocelesti. Abbiamo avuto la fortuna di formare calciatori come Faraoni, Macheda, Cavanda e Tuia, me ne sto dimenticando anche parecchi. Facemmo anche una finale Scudetto contro l’Atalanta. Sono stato anche collaboratore di Mimmo Caso in prima squadra, per poi tornare di nuovo al settore giovanile», spiega.
«Ho fatto il secondo alla Ternana, sono tornato alla Lazio per poi ritornare a Terni, dove ho provato una breve esperienza da primo allenatore in Serie B. Sono stato anche alla Reggiana, poi ho fatto due anni in Federazione come responsabile di un centro tecnico federale». Ma la Lazio è un cordone ombelicale difficile da tagliare e, così, Stefano Avincola rientra in biancoceleste: «Sono stato tre anni nel club come collaboratore tecnico, prima di Simone Inzaghi e poi di Maurizio Sarri».
Due avventure diverse, con due dei più grandi allenatori italiani degli ultimi anni, in un continuo dare e ricevere di competenze e conoscenze sportive. «Io a loro credo di non aver insegnato nulla», minimizza Avincola con l’umiltà di chi crede nel sacrificio. «Se pensano che io sia stato utile in qualche maniera, ovviamente ne ho piacere. Io sicuramente ho imparato molto. Sono allenatori con filosofie diverse, chiaramente ho imparato a vedere le cose da punti di vista diversi e sono cresciuto nel frattempo».
Persone a cui inevitabilmente Avincola resta ancora legato: «Con tutte le persone con cui ho lavorato ho un ottimo rapporto, una cosa che somiglia molto all’amicizia, mi auguro anche per loro. C’è sempre stato un rapporto onesto e fatto di verità. Ci sono state gratitudine e riconoscenza ma anche un arricchimento tecnico e umano. Sono due persone a cui mi sento di dare un pensiero amichevole anche se il lavoro con loro si è esaurito». Avincola, infatti, non fa più parte dello staff Lazio da questa stagione, come spiega con una punta di amarezza mista a bei ricordi: «Con mister Sarri è stata un’esperienza fantastica, mi ha fatto vivere un anno bellissimo. L’esperienza si è esaurita non per colpa sua, anzi lui voleva che restassi ma per altri motivi più societari sono dovuto andare via».
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Nel frattempo, però, chiusa una porta si sta aprendo un portone. Potrebbero infatti spalancarsi i cancelli dell’America. «Da un paio di settimane a questa parte si è aperto un fronte con l’American Group Soccer Managemente, stiamo parlando della possibilità di allenare in Mls», afferma. «Il progetto sta prendendo forma, anche se per ora preferisco non menzionare alcun club. Siamo in trattativa e vediamo come si svilupperà».
Negli ultimi anni la Mls ha aperto le porte a molti italiani. Alcuni nomi? I recenti Insigne e Bernardeschi, ma anche i vari Giovinco, Nesta, Di Vaio e tanti altri. «Questa è una cosa che si ripeterà nel tempo: altri prodotti verranno fuori e il mercato si consoliderà. Anche per me andare lì sarebbe importante per confrontarsi con un altro calcio e poter portare il bagaglio maturato in questi anni, magari contribuire allo sviluppo del movimento. Mi piacciono le sfide», rivendica il mister. Ma l’addio all’Italia non sarebbe un fallimento: «La vedo più come un’opportunità, un modo per fare qualcosa di diverso».
Certamente una riflessione emerge. Com’è possibile che un allenatore con una gavetta così importante alle spalle e un curriculum di tutto rispetto non trovi spazio nelle serie calcistiche principali italiane? «Chi ha avuto una grande carriera come calciatore e con un nome è normale che riceva qualche bonus in più rispetto a chi, magari, ha fatto tanta gavetta e un giro lungo tra i campi e le categorie. Bisogna comunque dimostrare tutto attraverso il lavoro quotidiano».
Ma come si risolve questo “problema”? «Onestamente, non so che tipo di soluzione ci potrebbe essere. Mi viene in mente che in difficoltà del genere concorriamo un po’ tutti per far sì che si valutino le persone con questo criterio, anche la stampa. Fa più clamore scrivere di un allenatore dal passato importante piuttosto che di un altro. Questo non vuol dire che questi ultimi non siano bravi o non meritino di stare dove sono. Solo che magari ce ne sarebbero anche altri pronti a meritarsi un’opportunità. Un esempio concreto è quello di Massimiliano Alvini, tecnico della Cremonese, arrivato in Serie A dopo anni di esperienza e gavetta. Senza quelle non sarebbe stato lo stesso. Quando facevo il secondo alla Reggiana, lui allenava l’Albinoleffe ed era già molto bravo. Il processo comunque si potrebbe accorciare per cercare di dare a tutti opportunità in tempi stretti», conclude.
In un Paese dove i cervelli sono sempre in fuga, rischiamo di perderne uno sopraffino, sportivamente e nella vita di tutti i giorni. Ma d’altronde, come spiega proprio il mister, la meritocrazia è un concetto su cui c’è ancora da lavorare e del quale – parafrasando – sappiamo ancora spaventosamente poco: «A volte per raccogliere un chilo di farina devi piantare diecimila ettari di grano. Altre volte, invece, a quanto pare basta un chicco».
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