Leggiamo sui giornali che Siniša Mihajlović, nonostante la promessa ai suoi giocatori – «Lotterò per vincere come ho insegnato loro a fare sul campo» – alla fine, la “sfida” non l’ha “vinta”. Che «la leucemia se l’è portato via», l’ex calciatore e allenatore serbo. Il «guerriero dal cuore d’oro», che «aveva già sconfitto la malattia una volta», ora, «al termine di una battaglia», è venuto a mancare.
Negli stessi giorni, il pallanuotista Matteo Astarita torna in piscina dopo mesi di stop, a un anno dal tumore scoperto per caso, e grida vittoria: «Un gol contro la malattia, un punto sul tabellone».
Nemmeno una settimana dopo, di Gianluca Vialli, dirigente sportivo, allenatore ed ex calciatore, sappiamo che è ricoverato: «Sta lottando contro il tumore al pancreas». Aveva reso noto di essere malato nel 2018, poi la ripresa nel 2020. Oggi «l’ospite indesiderato si è rifatto vivo». Ma scrivono che non si arretra: «Qui si lotta».
Da dove vengono le metafore belliche
Perché i giornali usano così tanto le metafore belliche? Perché è più facile. Usiamo le metafore ogni giorno nella vita quotidiana. Per George Lakoff, linguista statunitense, non sono solo strumenti ornamentali che rendono il discorso più persuasivo, ma rappresentano un meccanismo di categorizzazione del pensiero. Cerchiamo di ordinare la complessità dell’esperienza in categorie che già conosciamo, ed estendiamo gli schemi – le metafore – a quelle esperienze che non abbiamo ancora conosciuto.
Il francese Émile Benveniste poi ci ricorda che nel linguaggio la polarizzazione è fondamentale, poiché la coscienza di sé è possibile solo in contrasto con l’altro. Egli esiste perché è Altro da Me, così come non usiamo Noi senza implicare Loro. L’opposizione dei contrari produce narrazioni antagonistiche, della lotta e del conflitto, da sempre presenti nell’animo umano. L’antagonismo è molto narrativo perché presuppone personaggi ben caratterizzati nei propri ruoli – l’eroe e l’antieroe, l’assediato e l’aggressore – che lottano in una trama più o meno articolata per la vittoria. Il discorso giornalistico è pieno di metafore che rimandano allo schema dell’antagonismo e alla guerra. Quando però l’assediato è il corpo, e l’aggressore la malattia, qualcosa nella narrazione salta. Che cosa si vince? E quando si perde, si perde anche un po’ della dignità dell’eroe?
Cosa implicano le metafore belliche
La scrittrice e filosofa americana Susan Sontag ci ha già messo in guardia sull’uso delle metafore belliche quando si parla di malattie. In particolare, parlando a proposito di cancro, tubercolosi e Hiv, si è detta contraria ad assegnare qualsiasi tipo di significato alla malattia, poiché ogni significato è un giudizio moralistico che non fa che conferirle ulteriore potere. Infatti, l’idea del corpo del malato “assediato”, “invaso”, rischia di rendere il malato sempre più passivo e spaventato, condannandolo a esprimere pietà. E la compassione rende innocenti, ma anche impotenti.
La lotta implica che qualcuno debba vincere e qualcun altro soccombere. Quasi come fosse la conseguenza di un fallimento, morire come sbagliare ai rigori. Narrazioni di questo tipo impediscono di comprendere la complessità dei fenomeni medici ed erodono la realtà stessa della malattia. L’idea di “vincere la partita” con la forza di volontà è un racconto disonesto perché fa ricadere sul paziente la responsabilità e la colpa della malattia stessa.
Il giornalismo degli eccessi e la spettacolarità della malattia
Nel caso del Covid-19 più che mai, il linguaggio bellico ha preso il sopravvento. La virulenza del morbo descritta come l’invasione di un violento aggressore, il malato posseduto da una forza estranea, vittima e poi untore. E ciò ha prevalso anche sul racconto della cura, sui vaccini. Persino il linguaggio terapeutico è passato attraverso le metafore di una guerra violenta e aggressiva. Questa degenerazione appartiene al giornalismo che si nutre degli eccessi, «un giornalismo per il quale ogni dissidio diventa rissa, ogni inciampo diventa rottura, e abusa di proposte shock, dichiarazioni shock, notizie shock»: per il giornalista e scrittore Michele Serra questo è l’operato di media grossolani – che costruiscono, a loro volta, un pubblico superficiale. Una degenerazione che vuole spettacolarizzare ogni cosa, persino la malattia.
Dove risiede dunque l’onestà del racconto della malattia? Che è un po’ quello che Sontag si chiedeva con la domanda: «Esiste un antidoto contro l’eterna seduzione esercitata dalla guerra?». È probabile che l’antidoto sia nel raccontatr che Siniša Mihajlović non ha perso nessuna battaglia, ma è morto di leucemia nonostante gli anni di cure. Che Matteo Astarita è tornato in piscina dopo essere stato operato al cervello all’ospedale fiorentino di Careggi. E che Giovanni Villa è ricoverato a Londra, nella stessa clinica dove ha già sostenuto due cicli di chemioterapia. La poco romantica, per nulla epica, rappresentazione della malattia così neutra e asettica può soppiantare l’idea romanzesca della narrazione giornalistica. Ma il racconto della malattia senza le sue attrattive è anche e soprattutto altro: onesto, dignitoso.