La disinformazione russa non agisce solo nei confini “occidentali”, ma interessa anche e soprattutto quei Paesi meno attrezzati a individuare e contrastare le notizie false. Se in Europa e nel “Primo mondo” esistono decine di organizzazioni attive nel contrasto a propaganda e fake news del Cremlino (e non solo), in altre zone del mondo gli attivisti contro la disinformazione sono pochi e hanno mezzi insufficienti ad arginare questo fenomeno. Ne è un esempio il continente africano, dove la Russia è stata la principale fonte da cui sono partite le campagne di disinformazione attive nell’area, con almeno 16 operazioni attualmente identificate.
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Lì come altrove, le tattiche mirate di fake news sono parte della strategia militare russa di “guerra ambigua”, che sfrutta le divisioni all’interno di una società e le incertezze della popolazione, favorendo la frammentazione attraverso una lettura ambigua e convincente della realtà, generando la cosiddetta “nebbia di guerra”. L’obiettivo, spesso, non è convincere le masse, quanto confonderle, creando similitudini tra attori politici democratici e non democratici (ad esempio: colpa della Russia, ma anche della Nato; non ci sono un aggressore e un aggredito, ma due Paesi alla pari), provocando nei lettori disillusione e apatia.
Le campagne di disinformazione russa nel continente africano, inoltre, hanno un fine politico, come testimoniato dall’Africa Center for Strategic Studies. Queste, in genere, comportano il sostegno di un regime africano isolato al fine di vincolarlo a Mosca. Yevgeny Prigozhin, un oligarca russo che guida la truppa mercenaria Wagner ed è da tempo attivo nella creazione di fake news, ha esportato campagne di disinformazione in ogni Paese africano in cui i suoi mercenari sono stati attivi. Oltre a favorire un certo regime e a rafforzare il ruolo della Russia nel continente, i messaggi di queste campagne hanno l’obiettivo di screditare l’Occidente, le Nazioni unite e le forze democratiche.
Dato il contesto di diffusa povertà del continente, le campagne di Prigozhin hanno raggiunto milioni di persone con un budget contenuto. Il successo di questa operazione low cost ha spinto inoltre altri governi stranieri a perseguire strategie simili per rafforzare la propria influenza nell’area. Delle oltre 50 campagne di disinformazione documentate in Africa, si stima che circa il 60 per cento sia partito dall’esterno del continente. Nel tempo, le campagne di disinformazione in Africa sono diventate sempre più sofisticate nel camuffare le loro origini. Secondo l’Africa Center for Strategic Studies, lo hanno fatto pagando influencer locali per diffondere online contenuti prodotti altrove, spacciandoli come propri. Una tattica che ha confuso le acque e reso più difficile per i ricercatori risalire alla matrice della disinformazione. Le campagne monitorate, inoltre, sono solo una parte di quelle attive nel continente.
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Identificare le strategie di disinformazione, che con il tempo diventano sempre più sofisticate, richiede tempo, fatica e risorse. Non solo: richiedono anche uno sforzo coordinato con i gestori delle piattaforme di social media. Queste, quando tali campagne sono state identificate in Africa, sono state riluttanti a procedere con la rimozione delle stesse o a investire risorse sulla moderazione dei contenuti necessaria per frenare la disinformazione prima che si diffonda in modo incontrollato. In particolare, denuncia l’Africa Center for Strategic Studies, Facebook si è di recente rifiutato di rimuovere le reti coordinate di disinformazione che operano nell’Africa subsahariana nonostante queste abbiano tutti i segni distintivi della disinformazione russa, creando frizioni con i ricercatori di disinformazione locali e i giornalisti investigativi del posto.
Questa reticenza alla censura dei contenuti disinformativi da parte della piattaforma va inoltre di pari passo con la mancanza di misure per evitare che gli algoritmi dei social possano diffondere ulteriormente le notizie false. Un fenomeno che, peraltro, lede i diritti di tutti quei cittadini africani che sui social network provano a manifestare liberamente per il diritto a essere governati da un sistema democratico, dando forza a quei regimi repressivi che ne comprimono le libertà.
L’articolo è disponibile anche su IDMO, l’Osservatorio italiano sui media digitali.
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