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«No, il tuo cane non ti “ama”» – Intervista a Cloud Dog Trainer

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Francesco Stati

Come reagiresti se ti dicessero che no, il tuo animale domestico non prova sentimenti? Eppure, nonostante la sorpresa (sì, anche la nostra), è così. Per loro, tuttavia, siamo un punto di riferimento: si legano a noi attraverso vari meccanismi di affiliazione, rappresentiamo per loro un posto sicuro e un insieme di condizionamenti positivi. Entrambi (lo dimostra la scienza) traggono benessere da questa relazione.

Ce lo ha spiegato Cloud Dog Trainer, all’anagrafe Claudio Montanarini, addestratore cinofilo iscritto all’Ente Nazionale della Cinofilia Italiana e affiliato alla Federazione Cinologica Internazionale. 40mila follower su Instagram in soli due anni di attività sul social, una storia su TikTok ancora tutta da scrivere, Claudio, più che un addestratore, si definisce «una specie di mediatore tra il cane e l’uomo, quindi tra lingue diverse».

Come parlano i cani?

«Non parlano. Il loro modo di comunicare non è basato sul linguaggio, bensì sulla fonetica e la prossemica, cioè l’insieme dei movimenti nei confronti di qualcos’altro o qualcun altro. Mentre noi, a volte, tendiamo a muoverci verbalmente per risparmiare energia, i cani ancora non sono arrivati a questo punto, si muovono attraverso il corpo. Con i vari “no”, “che hai fatto?” e “basta” cerchiamo di proporre loro un linguaggio, che spesso, però, non riescono a interpretare bene».

Perché hai scelto di portare la tua attività sui social?

«Innanzitutto, io non lavoro solo sulla comunicazione, sul linguaggio e sulla mediazione, ma anche sulla psicologia della persona. Parto dal presupposto che l’individuo, attraverso una base emotiva, si muove adottando un comportamento che influenza la relazione con il cane: agendo sulla persona, agisco anche sul rapporto con l’animale. Per intenderci, spesso lavoro solo sul proprietario. 

Un giorno un mio amico mi ha consigliato di portare il mio lavoro sui social perché sono una persona piuttosto socievole e spigliata. Così, ho iniziato a filmare i miei addestramenti. Ho aperto il profilo Instagram nel giugno 2021. Poi, ho notato che c’era una grande confusione su tutto ciò che riguardava i cani: allora mi sono detto che forse era il caso di fare un po’ di divulgazione, ed essendo una persona leggera ho deciso di farla in modo divertente. Ha funzionato, ho cominciato ad avere visibilità, numeri e lavoro. A essere onesto, non era il mio obiettivo perché ho sempre lavorato grazie al passaparola e mi sono sempre trovato bene così; anzi, ero un po’ spaventato da questo tipo di pubblicità perché fino a quel momento mi arrivavano amici e amici di amici, quindi persone fidate. Uscire da questa mia comfort zone e aprirmi a un pubblico più ampio che non mi conosce è diverso. Alla fine, però, Instagram mi ha creato delle referenze: è strano da dire, ma nonostante abbia le stesse competenze di prima, adesso sono più qualificato e più richiesto. In genere, prevedo un pacchetto di quattro lezioni e addirittura molti sono disposti a pagarne una sola al prezzo di quattro perché mi vedono come uno famoso: c’è chi mi ferma persino per strada perché mi riconosce».

Leggi anche: Furry fandom: pelo e contropelo con FurryDen.

Cos’è che la gente pensa di sapere (e che, in realtà, non sa) sui cani?

«Molti credono di avere una risposta o una soluzione immediata, per la serie: “Se il cane fa così faccio questo, se il cane fa così faccio quest’altro”. È un principio che non esiste né in cinofilia né in psicologia né in medicina: tutto va contestualizzato sulla base del cane, della persona e della relazione che intercorre tra loro. Il mio obiettivo è far ragionare i proprietari, senza limitarmi a dire loro di fare “a” o “b”».

Come riesci a far capire che dietro ciò che dici c’è una persona competente?

«Quello di cui parlo è riscontrabile e dimostrabile scientificamente. Basta appellarsi alla scienza e, soprattutto, domandarsi il perché delle cose. Per esempio, perché il cane non deve stare sul divano o sul letto? Bisogna sviluppare un pensiero critico e abbattere alcuni dogmi, anche perché molti di questi risalgono agli anni Ottanta e Novanta: la cinofilia si è mossa, sono state fatte altre scoperte. Serve andare avanti».

Con la pandemia, è cambiato il tuo lavoro?

«Sì. Innanzitutto, sono aumentati i cani perché sono subentrate tante dinamiche, come la paura di rimanere soli, e questo ha portato la gente a concentrarsi più sulle relazioni che sugli oggetti [sul fronte delle adozioni, nel 2020 si è registrato un incremento del 15 per cento, dati Enpa, pari a 8100 cani e 9500 gatti che hanno trovato casa, ndr]. Da qui, sono sorte alcune criticità, legate soprattutto al cane che resta da solo. Preciso che averne uno è una responsabilità totalizzante, è come avere un figlio di due anni per tutta la vita dell’animale, è molto dipendente da te e non puoi lasciarlo solo per più di quattro o cinque ore. Durante i lockdown, le persone erano chiuse in casa, quindi i cani avevano compagnia tutto il tempo. Poi, però, si è tornati alla normalità. Il problema è che per molti cani il periodo di crescita che va dai 2 ai 6 anni è coinciso con quello delle chiusure, il che li ha assuefatti a certe dinamiche relazionali a scapito di quelle ambientali. Quando il proprietario è tornato alla vita di sempre, il cane non era più disposto a restare da solo, aveva perso l’abitudine. Infatti, i casi di cani che non riescono a stare da soli sono aumentati di molto, e ormai mi chiamano spesso per risolvere proprio questo problema».

Perché l’autonomia del cane è così importante? Che problema c’è alla base?

«L’autonomia è fondamentale e, alla base, c’è il distacco emotivo. È un tema complesso perché a volte le persone non riescono a lasciare il cane da solo perché hanno questioni psicologiche irrisolte, come la sindrome dell’abbandono. Quest’ultima non può essere sviluppata da un cane: ha una matrice del tutto umana. L’animale può avere emozioni, ossia reazioni impulsive a uno stimolo attraverso il comportamento, ma è sempre legato al “qui e ora”. Gli addestratori come me agiscono sullo stato emotivo del cane, sulle sue emozioni, sulla valutazione di queste e, quindi, sul comportamento, cioè sul modo in cui l’emozione si manifesta. Il sentimento, invece, è qualcosa in più elaborato, che richiede astrazione di pensiero e razionalità. Quando un cane viene abbandonato, prova mancanza di riferimenti perché fino a quel momento era abituato a basare la sua sicurezza su riferimenti umani. Ma non si tratta di un sentimento».

Leggi anche: Informazione alternativa e social network: come si formano le nostre opinioni?

E si può riprendere?

«Sì, anche se dipende molto da quanti traumi ha subito e da che tipo di cane è. Ci sono cani socievoli che vivono l’abbandono in maniera diversa rispetto a cani diffidenti, che hanno più difficoltà a legarsi all’estraneo. Di norma, un cane più socievole rimane meno traumatizzato da un evento simile, ma sono rilevanti anche altre componenti, soprattutto caratteriali, come la capacità di sopportare stimoli negativi. In generale, molte volte commettiamo l’errore di umanizzare gli animali e gli oggetti. In psicologia si parla di attribuzione: prendiamo il nostro modello comportamentale (umano) e lo attribuiamo a qualcosa che umano non è. Quando sbattiamo il mignolo del piede contro la gamba di un tavolino, per esempio, tendiamo a insultarlo. In quel momento, sta avvenendo un’attribuzione, in parte anche per scaricare altrove parte della nostra responsabilità. Il nostro comportamento influenza l’animale. Per esempio, un cane che ha sbattuto leggermente la zampa è probabile che inizi a zoppicare anche se non si è fatto male. Perché? Perché noi reagiamo preoccupandoci, dicendogli “poverino”, “che ti sei fatto?” e manifestandogli tutta la nostra angoscia. Questo può generare problematiche e lasciargli un trauma. Va bene essere emotivi, ma al momento giusto, non subito: la nostra emotività non coincide con la loro». 

Rispetto a quando hai iniziato questo lavoro, noti cambiamenti nella relazione uomo-cane?

«Faccio questo lavoro da 15 anni, da quando non era molto conosciuto e non c’era una grande sensibilità su questi temi, sensibilità che invece noto adesso. Di pari passo con gli animali domestici, stanno aumentando l’informazione, la consapevolezza, la conoscenza. Rispetto a 15 anni fa, i cani vengono trattati meglio, ci si indigna di più di fronte a casi di abbandono o simili. In questo, senza dubbio, hanno giocato un ruolo importante anche i social media, ma bisogna fare attenzione: l’indignazione, quindi l’emotività, da sola non porta a nulla. Servono razionalità e consapevolezza. Non si prende un cane solo perché ci fa pena o tenerezza, bisogna riflettere su cosa significhi averne uno. Anche perché per avere un cane sereno è necessario essere una persona serena. È impensabile che gente frustrata abbia cani felici».

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