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Messi, Maradona o Pelé? Nessuno dei tre!

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Davide Zazzini

Puntuale come un orologio svizzero, ogni evento che segna la Storia del calcio risveglia il tormentone più ricorrente e inutile di questo (come altri) sport. Morto Maradona, iridato Messi, seppellito Pelè in un paio due anni, siamo stati travolti – ma più che travolti, asfissiati, intossicati – dalla zaffata Domanda delle Domande: chi è (stato) il calciatore più forte della storia del calcio?

Niente convegni e ragionamenti lenti, però. Ognuno ha già la risposta bell’e pronta da decenni. Più fulminea di una fucilata. Sportivi, giornalisti, dirigenti. Ma anche imbianchini, paninari, chirurghi. Piastrellisti. Becchini. Bidelli. Non fa differenza. Un esercito di lingue sciolte con martelletto in mano che starnazza volatili sentenze, che, per il solo fatto di essere state emesse, diventano le Tavole della Legge del Pallone.

Scodellano giudizi. Emettono verdetti imperituri. Scolpiscono sulla pietra verità più durature delle Piramidi. I più cipigliosi, accanto alle sentenze gnomiche, si premurano pure di accostare dati, partite, gol, assist, colore dei pantaloni, cuoio degli scarpini (fin quando erano indossati), taglia delle mutande, piatto mangiato il giorno x all’ora y. Così, giusto per onorare Hegel. Tesi, antitesi e sintesi.

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Non solo, ma chi non le rispetta è uno stronzo. Un analfabeta calcistico. Un minus habens. Peggio, un nemico del calcio, un sovversivo che trama contro il palazzo (degli specchi) dello sport più bello del mondo.

Ma quindi chi è il giocatore più forte della storia del calcio? I lusitani indicano CR7 d’Arabia. Per i brasiliani la seduta è tolta dal 1977, anno in cui Edson Arantes do Nascimento, in arte Pelè, appende gli scarpini al chiodo. I napoletani, però, hanno riaperto e chiuso il caso in quindici anni a colpi di neomelodico: Maradona è megl ‘e Pelé. Per i catalani, invece, solo Messi è meglio di Messi. Ma già cinquecento chilometri più in là, a Madrid l’unico argentino incoronabile per i ‘reali’ è casomai Alfredo Di Stefano.

In Argentina, intanto, quando Messi ha sollevato la terza coppa del mondo della loro storia, la Nazione è andata in crisi. Maradona o Messi? Diego o Leo? El Pibe o La Pulce? Convegni, dibatti, scervellamenti – ancora in fieri – l’hanno risolta, per ora, democristianamente: incoronazione per filiazione dinastica. Ovvero Messi erede del divino Maradona. L10s secondo. Figuriamoci se lasciano, raddoppiano.

Poi ci sono i finti anticonformisti, quelli che fanno schioccare la lingua per snocciolare un rosario di esclusi eccellenti: Crujiff, Ronaldo (il Fenomeno, ovviamente), Ronaldinho, Beckenbauer, Puskàs. E in Italia? I nostri Baggio, Totti, Mazzola, Piola, Del Piero, Meazza brillano fino alle Alpi. Poi, ammettiamolo, impallidiscono davanti alla succitata tetrarchia. Però noi mica stiamo a guardare, no. Per una volta che potremmo placidamente fregarcene dell’abbaio no-sense -noi che tra il Parlamento e Sanremo ne siamo maestri- ci gettiamo armi e bagagli nella canizza, meniamo le mani, ci inzaccheriamo giulivi in questa grande fanghiglia intorno al niente. Un esempio su tutti: l’intemerata garrula di un giornalista di Sport Mediaset che, in un salottino social, ha dissotterrato il pugnale di guerra contro ignoti così: «Il prossimo che paragona Messi a Maradona si becca una querela». Per quale reato (d’opinione) non è dato sapere.

Veniamo al dunque: questa guerra a vincita zero ha senso? Cosa si ottiene nel buttare giù dalla torre tutti i campioni per incoronarne uno? Sono confrontabili? Veramente si può mettere nella stessa arena il Pelè più sognato che visto di un calcio bailado anni Sessanta non ancora (del tutto) divorato dal mercato, con il Maradona cosmopolita, sfruttato, mercificato, spremuto come un limone o il Messi della società liquida prima businessman e poi calciatore dalle uova d’oro?

Ammesso (e non concesso) di sì, con quali criteri, leggi, si potrebbe procedere all’elezione? Si dirà: i trofei. L’almanacco recita: tre Mondiali a uno per Pelè su Maradona e Messi. Apriti cielo, in Argentina sono già sul piede di guerra. Ritentiamo: il giocatore con più medaglie al collo. Maradona? No. Messi? Nemmeno. Dani Alves (sì, Dani Alves!) con venticinque titoli in carriera. Uno in più di Messi, ex compagno di squadra al Barcellona di Guardiola. Ritentiamo ancora. I Palloni d’Oro. Sette a cinque per Messi su Ronaldo. Per di più quando Maradona e Pelè erano in attività, il premio era interdetto ai non europei. Vanità e boria della Francia del Pallone.

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Si potrebbe andare avanti a snocciolare statistiche, dati, teoremi, tutti fallimentari. O adatti a dimostrare un’unica legge: Messi, Ronaldo (il Fenomeno o d’Arabia, fate voi), Pelè, Maradona sono (stati) prodigi irripetibili che hanno regalato ai calciomaniaci di tutte le latitudini non trascurabili momenti di estasi. In epoche, campionati, società, Nazioni, guerre, club, tifoserie, formazioni diverse, non sovrapponibili. E altrettanti verranno nel pallone che sarà. Non sarebbe il caso, allora, di goderci l’abbondanza di cotanto talento, apprezzandone uno per la serpentina spaccadifese, l’altro per l’estro irripetibile, non fotocopiabile, senza andare alla guerra con il proprio idolo contro quelli degli altri?

La questione pare solo calcistica, un vuoto esercizio retorico riempi-giornali. Ma forse c’è di più: mostra come alligna nella psicologia di massa oggi più che mai forse (e il forse è d’obbligo), il vizio di aggredire, annullare, cancellare l’opinione, la visione del mondo, i valori dell’Altro da sé, imponendo il proprio.

Però il calcio è universale (se e) perché appassiona, affratella, cancella differenze, fonde etnie. Perché quando Messi, Maradona, Pelè e tutti gli altri che volete scendono (l’indicativo presente è voluto) in qualsiasi campo, in qualsiasi tempo «si ferma il respiro del Paese, tacciono i politici, i cantori e i ciarlatani da fiera, gli amanti frenano i loro amori e le mosche interrompono il volo», per dirla con Eduardo Galeano. Lui sì, uno dei vertici della letteratura sportiva del secolo scorso. Tra tanti altri.

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Davide Zazzini

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