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Spettacolo

Viaggio nel K-pop, tra virtual band e sogni di fama

Published by
Michel Bellomo

Recentemente si sta parlando delle sperimentazioni di virtual band in Corea del Sud e di come queste rappresentino un notevole passo avanti grazie all’uso di intelligenze artificiali. Il concetto di band virtuali, in realtà, non è una novità neanche in Occidente. Pensiamo ai celeberrimi Gorillaz, band nata dall’artista Jamie Hewlett e dal musicista Damon Albarn, che hanno permesso a quest’ultimo di sperimentare liberandosi dalla gabbia dell’essere frontman, o anche a progetti meno noti ma comunque di dignitoso successo come gli Studio Killer.

Il fatto che in Corea le innovazioni riguardino personaggi virtuali che sembrano umani e possono ingannare un ascoltatore occasionale, o che uniscano in scena cantanti reali e virtuali, costituisce la vera novità; e il fatto che questo accada proprio in estremo Oriente non è una vera sorpresa. In generale, è in periodo di particolare notorietà per le produzioni mediatiche sud-coreane: si pensi ai successi di Squid Game e Parasite per citare esempi in altre arti.

Leggi anche: L’importanza di usare una contronarrazione semplice: Squid Game, Don’t Look Up, Parasite.

Nonostante questo successo, il K-pop rimane un fenomeno più o meno esotico e sconosciuto al pubblico generalista, ma è destinato a crescere nei prossimi anni. Comprenderlo è essenziale, quindi, non solo per non fare la figura del boomer di turno ma per capire quanto la sua influenza sia già realtà.

Molti inquadrano la Corea del Sud come il nuovo Giappone nel ruolo di produttore orientale che esporta la propria cultura in Occidente. Questa visione ingenua sottende un errore di fondo: se il Giappone crea prodotti che talvolta ammiccano all’Occidente ma sono pensati per per un pubblico giapponese (e nonostante ciò, riescono spesso a essere di successo globale), i media coreani nascono con il preciso intento di soddisfare un pubblico globale.

Questo è particolarmente vero per la musica. Non a caso, l’artista giapponese più famoso nel mondo è Joji, di padre australiano, che vive negli Stati Uniti da anni e che si muove nel mercato musicale occidentale seguendone i paradigmi. Altri esempi analoghi possono essere Sarah Midori Perry, nota principalmente come frontwoman della band inglese Kero Kero, o la cantante hyperpop Rina Samawara, che – come Joji – di giapponese nella loro produzione musicale hanno relativamente poco o niente.

Il J-pop, ovvero il pop giapponese, rimane noto al di fuori del Giappone solo nelle nicchie, principalmente tra gli otaku (gli autoproclamati fissati di anime e manga). Sebbene talvolta gli artisti J-pop riescano a costruirsi una relativa popolarità anche in Occidente, difficilmente escono dal Giappone; e se lo fanno, lo fanno con eventi di portata estremamente piccola, alla stregua di concerti di band esordienti. Da questo punto di vista, eventi come la data italiana di Kyary Pamyu-Pamyu, cantante pop giapponese divenuta nota su Internet nei primi anni Dieci, costituiscono un’eccezione.

Pure in Giappone gli artisti virtuali sono piuttosto popolari ma, anche in questo caso, lo sono per delle peculiarità tipiche giapponesi e del suo mercato, e accade più per fortuna che altro che possano ottenere un realtivo successo globale. È il caso di Hatsune Miku, una cantante virtuale nota anche in Occidente e passata alle cronache per essere stata la prima artista completamente virtuale a esibirsi sotto forma di ologramma, con dei musicisti reali che condividono il palco con lei. La particolarità di Miku è che non ha nessuno che canti per lei: la sua voce è il prodotto di un software commerciale, Vocaloid, un sintetizzatore vocale che permette a chiunque di “cantare” artificialmente delle voci proprietarie del software scrivendone lo spartito.

Come in molti prodotti giapponesi, Miku è in realtà una mascotte di corredo costruita a fini di marketing e non era destinata a diventare il prodotto in sé. Il suo successo, enormemente maggiore rispetto alle sue voci sorelle del software, è dovuto a ragioni non ancora chiare. Miku è solo un pezzo di un fenomeno enorme creato da decine di persone semi-sconosciute che hanno costruito negli anni una discografia sconfinata e una vera e propria lore che include anche i personaggi di Utau, la versione freeware di Vocaloid.

Il K-pop come fenomeno di costume

Il fenomeno delle virtual band coreane è qualcosa di molto diverso. Per comprenderlo, bisogna inquadrare cos’è il K-pop e perché viene trattato come un genere musicale a sé stante. Innanzitutto, bisogna introdurre un concetto comune alla musica coreana e giapponese, ovvero quello di idol. Gli idol sarebbero le pop star di questi Paesi, ma con qualcosa di più. Gli idol, infatti, sono cantanti, ballerini, attori e personaggi televisivi a tutto tondo. Sono forgiati dalle case discografiche sin da giovanissimi e queste ultime, oltre a formarli in ognuna di queste discipline, ne controllano meticolosamente l’attività artistica e l’immagine pubblica.

Questo aspetto è particolarmente vero nel K-pop, dove le case discografiche hanno un controllo quasi totale sulla vita degli idol. Oltre a dettare ritmi di vita serratissimi e dediti esclusivamente all’attività lavorativa, possono controllare anche l’aspetto fisico dei cantanti, imponendo diete estreme o interventi di chirurgia estetica. Voci difficili da confermare dicono che, attraverso pressioni psicologiche, le etichette discografiche controllino anche le vite sentimentali o in generale tutta la vita privata dei loro artisti. Questo vale anche per scelte creative come le carriere da solista di alcuni membri di spicco delle band più famose, di cui ogni impulso creativo è scrupolosamente limitato da un lavoro di scrittura che può avvenire solo in team con il personale dell’etichetta.

Perché questo è possibile? Principalmente, perché i gli idol vengono intrappolati in questo tipo di contratti quando ancora minorenni. Ma soprattutto, il mondo del lavoro coreano è estreamamente arretrato (se comparato ai Paesi occidentali), con uno squilibrio di potere fortemente a favore dei datori di lavoro e una cultura del lavoro che non si discosta troppo dal diritto in quanto ad arretratezza. Agli aspiranti idol, dunque, oltre a un sogno di fama, ricchezza e successo, viene offerta un’alternativa a un mondo altrettanto massacrante, in cui le professioni più remunerative sono inaccessibili a chi non si può permettere un’istruzione privata.

Per comprendere il fenomeno K-pop, bisogna comprendere anche alcuni aspetti storici. La Corea del Sud deve la costruzione della sua cultura contemporanea al complesso rapporto con gli Stati Uniti e alla natura militare di questa relazione. Per questo la musica coreana, nella sua accezione più moderna, si sviluppa intorno a ciò che i soldati americani importano; e anche i movimenti controculturali hippie sono legati principalmente al folk. Anche ciò che la tv trasmise durante il perido della dittatura militare prediligeva il folk e le ballad, il tutto in un clima censorio con un enorme controllo su tutto ciò che era trasmesso.

Seo Taiji and Boys, i progenitori del K-pop.

Il pop, e quindi il K-pop, arriva in concomitanza con la democrazia, il libero mercato e un ammodernamento del Paese sul piano non solo culturale ma anche economico. In questo periodo si ha un’apertura all’estero in senso sia fisico sia virtuale, con l’avvento di Internet. E anche la musica riflesse questo cambiamento. Ciò che era rimasto immutato era l’oligopolio delle etichette discografiche, fortemente connesse alle due uniche reti televisive del tempo.

Il K-pop, sin dalle sue origini, si sviluppa in un ambiente dove ogni aspetto performativo è meticolostamente controllato e l’attività musicale è concepita come un tutt’uno con la sua dimensione televisiva. Musica, ballo, costumi e scenografie; sono tutti pezzi degli stessi segmenti televisivi costruiti ad hoc gli uni per gli altri. Il tutto, compreso il totale controllo creativo da parte delle etichette, è frutto di una classe manageriale che per la prima volta si sta affacciando a un mondo non-industriale, e pertanto continua a essere legata a un modo di ragionare adatto principalmente alla produzione di prodotti fisici. Da qui segue quanto detto sulle vite degli idol. La stessa virtualizzazione degli idol è in realtà un modo di automatizzare alcuni processi della vita pubblica di questi, come la relazione con il pubblico.

Oltre il lato culturale

Anche sotto il profilo squisitamente musicale, il K-pop ha le sue peculiarità. Il pop coreano nasce mescolando diverse caratteristiche della musica occidentale, prendendo ispirazione dal gran calderone di generi che era in classifica negli anni Novanta e con la tendendza alla reciproca contaminazione che sarebbe solo aumentata nel tempo. Questo trova il suo massimo nel mondo coreano che, non conscio delle varie tradizioni di ogni singolo genere, finisce per fare un unico minestrone, prendendo i pregi ed evitando le debolezze delle singole scene.

Visto il connubio con la musica occidentale, non sorprenderà che l’effetto esotico, o quanto meno straniante del K-pop, non stia in una ripresa di strutture e sonorità asiatiche trasdizionali bensì da altro. Il pop coreano non segue la struttura della musica pop occidentale, ma al contrario è estremamente non-lineare, eterogeneo e soprattutto musicalmente complesso. Non è raro che a farla da padrone siano strutture musicali jazz, a cui noi ascoltatori occidentali non siamo particolarmente abituati. Inoltre, spesso sono chiamati proprio dei produttori occidentali (il più delle volte americani) proprio per creare un prodotto quanto più “occidentaleggiante” possibile. Anche i testi vengono spesso scritti in inglese da parolieri americani e poi tradotti e adattati alla lingua coreana.

C’è di più: un altro elemento caratteristico del K-pop è il costante cambio di genere, o in generale di atmosfera, della canzone. Anche questa è una scelta di progettazione delle canzoni. Lo scopo è quello di stimolare costantemente il cervello degli ascoltatori e non dare mai un attimo di tregua, lasciandolo costantemente eccitato. Un brano è quindi un’esperienza musicale, un’opera in miniatura fatta di atti ben strutturati.

In realtà il brano è un’esperienza a tutto tondo, e qui tornano la poliedricità degli idol e l’inserimento dei brani in sipari televisivi: una canzone K-pop non è solo la sua musica ma anche la dimensione performativa, totale e totalizzante predominata da scelte più estetiche che musicali. Ogni minimo dettaglio è progettato per massimizzare le emozioni negli ascoltatori.

In sostanza il K-pop è questo, la summa di tanti professionisti che creano prodotti più industriali che artistici, eseguiti da professionisti della performance. La formula coreana non solo è destinata a crescere e diventare influente in Occidente, ma già sta mostrando i suoi effetti. Se prendiamo il tormentone estivo Tropicana, vediamo che si tratta di un prodotto musicalmente molto simile a un brano K-pop, e non è difficile riconoscere negli elementi comuni alla produzione coreana le origini del proprio successo.

Alla luce delle storia coreana e delle peculiarità del mercato musicale globale, non sorprendono dunque né la rapida evoluzione della musica coreana né il suo ruolo nel mercato globale. Ma soprattutto, non sconvolge che le innovazioni musicali sul piano economico arrivino proprio dal continente asiatico né che l’uso dell’intelligenza artificiale sia solo l’ultima trovata delle major per mantenere il controllo e massimizzare i profitti su un mercato sempre più saturo e competitivo.

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