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La Cina e il suo Zero Covid Fail

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Lorenzo Pucci

Sono quasi passati tre anni da quando sui giornali internazionali si parlava per la prima volta di un misterioso virus che si stava diffondendo nella Repubblica Popolare Cinese. Quella che sembrava un’influenza lontana e distante si è trasformata, nel giro di qualche settimana, in una pandemia che ha messo in ginocchio l’intero pianeta. Fortunatamente, grazie ai vaccini e al progresso scientifico, la vita è praticamente tornata alla normalità. O almeno, per noi.

Le notizie rilanciate dalle varie testate internazionali e non parlano di un Paese, la Cina, che ha eliminato solo adesso le politiche più estreme di contenimento dei casi. Eppure, l’Oms esprime la sua preoccupazione per un incremento fuori controllo dei casi di Covid-19 nelle ultime settimane.

Ci troviamo davanti a uno dei più grandi fallimenti della presidenza Xi; un fallimento che rischia, ancora una volta, di avere delle ripercussioni devastanti su tutto il pianeta.

La Zero Covid Policy

A differenza di quanto accaduto nel resto del mondo, la Repubblica Popolare Cinese ha optato per una differente strategia nella gestione dei casi Covid-19.

La Zero Covid Policy potrebbe essere riassunta come una grande macchina sanitaria che, come scopo principale, avrebbe dovuto stroncare sul nascere tutti i potenziali focolai. Un sistema supportato dal contact tracing, in parole povere da applicazioni che permettevano di segnalare tutte le persone entrate in contatto con un positivo in un determinato raggio, e da un sistema di test di massa e di lockdown su varia scala qualora i casi fossero troppi.

Foto: Flickr.

Questo sistema ha permesso al Paese di poter avere pochissimi casi, sacrificando però l’economia nazionale. Secondo una stima fatta da Bloomberg lo scorso marzo, il lockdown di Shanghai è costato a Pechino circa 46 miliardi di dollari al mese. L’economia cinese nel 2022 non ha raggiunto i risultati sperati, e questo ha obbligato la World Bank a tagliare le stime sulla crescita del Pil del Paese.

La difficile situazione economica e una serie di incidenti hanno fatto sì che il malcontento si diffondesse tra la popolazione. A novembre ci sono state delle vere e proprie proteste, note sul web con l’hashtag A4 Revolution per via dei fogli bianchi usati dai manifestanti per aggirare le leggi sulla censura.

Il fallimento della gestione della pandemia

Vista la situazione interna, il governo di Pechino aveva tutta una serie di valide ragioni per poter allentare le misure anti Covid-19 nel Paese. Con la popolazione in piazza e il mondo degli affari fortemente danneggiato dai lockdown, riaprire il Paese è stata probabilmente la scelta migliore. Nel giro di poco tempo, però, la pressione sugli ospedali è iniziata a crescere in modo esponenziale. Stando al Guardian, in alcuni ospedali di Pechino oltre l’80 per cento del personale sanitario si sarebbe contagiato a causa di questa nuova ondata.

A causare questo aumento dei casi non c’è da imputare solo la fine delle misure anti Covid-19. In primo luogo, c’è la campagna vaccinale cinese. Secondo il South China Morning Post, al momento nel Paese ci sono oltre venti milioni di over 60 che non hanno ricevuto nemmeno una dose di vaccino. Numeri che si aggravano stando ai dati ufficiali, che vedono un 42,4 per cento degli over 80 vaccinati con almeno una dose.

Leggi anche: Cos’è successo nel Congresso del Partito Comunista Cinese.

In secondo luogo, c’è la disorganizzazione delle autorità sanitarie, che si sono trovate completamente impreparate nel gestire la nuova ondata. Ospedali, farmacie e addirittura obitori si sono ritrovati davanti alle conseguenze di una grave ondata di contagi senza avere strumenti e personale a sufficienza. C’è una grave carenza di posti letto, di terapie intensive e di farmaci a base di ibuprofene. Questo anche a causa di una mancanza di investimenti volti a potenziare tutto il sistema sanitario nazionale.

Tutto sembra convergere verso una pessima gestione da parte della leadership cinese, fresca di rinnovamento in seguito al XX congresso del Pcc. In questo momento il mondo politico cinese si trova in un limbo tra leadership uscente che non vuole prendersi delle responsabilità troppo pesanti sul piano amministrativo e futuri amministratori che fino a marzo hanno le mani legate.

La guerra dei dati

L’Oms da settimane richiede agli ufficiali sanitari cinesi dati precisi e in tempo reale sull’andamento dell’epidemia, ma al momento c’è molta confusione. Quello che sappiamo è che, il 25 dicembre, la Commissione Sanitaria Nazionale ha deciso di sospendere il conteggio dei positivi e delle morti da Covid-19. In questi giorni è partito quello che si può definire un valzer dei positivi. Stando all’Asia Times, solo a dicembre circa il 40 per cento della popolazione cinese avrebbe contratto il Covid-19.

Nel frattempo, il resto del mondo cerca di correre ai ripari come può. L’Ue sembra intenzionata a dar vita a una strategia comune che vedrebbe la richiesta di tampone per tutti i passeggeri in arrivo dalla Cina. Italia e Francia si sono già mosse verso questa direzione, causando le ire del ministero degli esteri cinese. Dalla Commissione Ue è arrivata però solo una risposta: «Non abbiamo alcuna risposta alle dichiarazioni del portavoce del ministero degli Esteri cinese».

E così, di colpo, sembra di essere tornati indietro di tre anni.

Il mondo, ancora una volta, si è voltato verso la Repubblica Popolare Cinese, con la paura che certi spettri del passato possano tornare nella vita di tutti i giorni.

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Lorenzo Pucci

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