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Spettacolo

Cucina, ma non solo: il viaggio di Ginzberg in Cina

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Amedeo Gasparini

Rileggere il passato attraverso l’attualità e viceversa è una delle passioni di Siegmund Ginzberg, che con il suo Colazione a Pechino (Feltrinelli, 2022) guarda alla Cina di ieri e di oggi attraverso la cucina e le esperienze che da corrispondente de l’Unità (1980-1987) ha raccontato negli anni.

«La Cina è la sua cucina, è come e quando si mangia. Tutti siamo quel che mangiamo». Ma forse i cinesi un po’ più degli altri. «Governare bene è come cucinare bene. Comunismo è quando la cuoca governa, diceva Lenin. Conclusione logica: l’inferno è quando i cuochi non sanno cucinare». Ogni cultura ha un rapporto con la propria cucina. Il libro di Ginzberg affronta politica e letteratura, abitudini e affari correnti della Cina, tramite il fil rouge della cucina. «La politica in Cina è sempre stata un rompicapo, uno dei più complicati. Difficile da decifrare […] sembra ripetersi all’infinito».

La Repubblica popolare dell’amnesia

La chiamano anche Repubblica popolare dell’amnesia. Che si riallaccia a un concetto molto cinese: quello della segretezza e della mancanza di trasparenza. Lo aveva notato sin da subito l’autore, quando arrivò nei primi anni Ottanta in Cina e sedeva a tavola con Hu Yaobang o Enrico Berlinguer in visita, per parlare di questioni politiche, ponti tra Roma e Pechino, sebbene «parlare di democrazia in Cina è sempre stata cosa da pazzi». In Cina non ci sono mai stati i check and balances e dunque la democrazia è sconosciuta. Nel racconto di Ginzberg, anche il rapporto con la stampa. «Per i leader cinesi è un’antica e consolidata abitudine utilizzare i giornalisti stranieri per dire cose che hanno difficoltà a dire all’interno. Sono ballon d’essai. Se funziona, bene. Se non funziona, allora si fa presto a dire che il giornalista ha capito male».

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Lo faceva Mao Zedong, che così si conquistò una buona fama in Occidente. Tra gli aspetti più divertenti del libro, anche le abitudini culinarie del Grande Timoniere. Sia lui che Deng Xiaoping andavano matti per i peperoncini e la cucina piccante. Mao viene analizzato anche alla luce dell’abbigliamento. Adottò la giacca degli avversari nazionalisti con quattro tasche come simbolo della rottura con il passato imperiale. Mao e Chian Kai-shek vestivano la stessa giacca, che non a caso è quella che indossa il capo della Spectre di James Bond. Xi Jinping invece veste all’occidentale, ma quando celebrò il centenario dalla nascita del Partito Comunista rispolverò la giacca maoista. Sia Mao che Chian «erano a favore di un sistema dispotico, fondato sul comando di uno solo, entrambi diffidavano della democrazia all’occidentale». Mao ricorreva spesso a un linguaggio semplice e concetti comprensibili per tutti. Il cibo entrava nei suoi celebri aforismi.

«La rivoluzione non è un pranzo di gala»

«La rivoluzione non è un pranzo di gala», «Non si fa la rivoluzione se non si sopporta il peperoncino peccante», «L’unico modo per conoscere se la pera è buona o no è mangiarla». Una grande ammissione, Mao la fece a Henry Kissinger nel 1972. «Il Presidente ha mobilitato un’intera generazione e ha cambiato il mondo». «No, non ho cambiato granché, sono riuscito a cambiare qualcosina solo a Pechino e immediati dintorni», gli rispose Mao. Il Grande Timoniere era appassionato di Shuihu e Romanzo dei Tre Regni, che lesse anche durante i giorni della Grande Marcia. Quanto alla rivoluzione culturale, Yang Su (Collective Killings in Rural China during the Cultural Revolution) nota come solo nel Guangdong e nel Guangxi si ammazzarono più persone nelle campagne che in tutto il resto della Cina. Coinvolti i villaggi remoti, dove più che l’odio di classe pesavano le vecchie rivalità tra clan.

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Intere famiglie vennero sterminate da altre famiglie. Come se non bastasse, lo ricorda Tiziano Terzani – collega in Cina di Ginzberg – scrisse un articolo in cui affermava che negli anni Ottanta la Cina aveva il primato mondiale delle esecuzioni capitali. Ogni anno venivano giustiziate diecimila persone. Il libro prosegue tra aspetti domestici – «in provincia, negli alberghi, cucina, dispensa e frigoriferi venivano chiusi a chiave» – medici – «in epoca di Covid sono tornati in auge in Cina i rimedi erbali» – e igienici – «il cesso resta il centro della vita sociale». L’abitudine alla crudezza viene osservata da Ginzberg. Ci sono svariati modi di cucinare una tartaruga in Cina secondo Curzio Malaparte (Io, in Russia e in Cina). Uno prevede l’incapsulamento dell’animale e la cottura nella sua urina. «In Cina si mangia tutto quello che ha quattro gambe, tranne il tavolo, tutto quello che ha due gambe, tranne i genitori», secondo un detto popolare.

Cannibalismo e migrazioni

In alcuni mercati cinesi, però, si vendeva carne umana. Il tema del cannibalismo è onnipresente in Cina e nella letteratura cinese. Lo ricorda Lu Xun nel Diario di un pazzo. L’ossessione del consumo di carne umana. «Mangiare o essere mangiati è la questione ricorrente nella follia del protagonista. Per Lu Xun è la metafora di una Cina dove da millenni gli uomini si mangiano tra loro». Altro tema ricorrente sulla Cina sono le migrazioni. «I cinesi sono comunque un popolo di migranti, così come gli americani sono un popolo di immigrati. I cinesi emigrano fuori dalla Cina, dilagando in tutto il Sud-Est asiatico e poi nelle Americhe». Spesso hanno subito leggi e discriminazioni ad hoc. I cinesi fornivano manodopera a basso costo. Odiati e massacrati – accusati di «portare via il lavoro». Un pregiudizio anticinese, forse, è dovuto anche al braccio di ferro nel XIX secolo con le guerre dell’oppio.

Il secolo dell’umiliazione cinese

Non si capisce la Cina se non si parla del tè. «Ai cinesi il tè piace verde […]. A noi occidentali piace nero, forse perché siamo influenzati dalle prime importazioni di tè, per forza fermentato, causa il lungo viaggio in veliero». Oggi come allora, la Cina esportava più di quello che importava. Il che non era apprezzato dagli inglesi. La principale importazione dei cinesi era il tè, che non veniva coltivato in India. Il consumo era esteso a tutte le classi sociali e considerato una cura ai malanni. Per ricalibrare la bilancia dei pagamenti, dunque, i britannici iniziarono a vendere oppio ai cinesi. Da qui la prima guerra dell’oppio (1839-1842) e la seconda (1856-1860), entrambe concluse con la concessione della Cina di diversi porti. Quando si parla di “secolo dell’umiliazione” si fa riferimento proprio a questo, ed è una costante nella storia e nella politica cinese.

Navi da oppio nel porto di Shanghai. Foto: Picryl.

«È il collante delle periodiche esplosioni di nazionalismo esasperato, di xenofobia antioccidentale […]. Quella che gli studiosi hanno definito “mentalità della vittima” è essenziale per comprendere la politica estera, la diplomazia e […] l’aggressività della Cina». Per un’ironia della Storia, due secoli dopo è stata proprio la Cina a impossessarsi dei porti europei. Il capitolo sui fantasmi del passato, poi quello sul cane. Quello sull’amore: «In Cina, a differenza che in altre parti del mondo, non mi sono mai innamorato. Non perché le cinesi che non conosciuto non mi piacessero: tutt’altro. Perché la concezione dell’amore in Cina è profondamente diversa da quella cui siamo abituati». E ancora quello dei figli e della demografia. «Più invisa della fame, della privazione della libertà e di ogni altra violenza: l’obbligo di non avere più di un figlio». Ginzberg ripercorre le discussioni con una donna di campagna che ha “dovuto” annegare i propri figli.

«Non mi era possibile tenerli perché non c’era nessuno che potesse occuparsi di loro mentre lavoravo nei campi». Incoraggiare a fare più figli sarà la politica che determinerà la sopravvivenza della nazione cinese. Anche per questo, la Cina la si ama o la si odia. Albert Einstein ricevette la notizia di assegnazione del Nobel per la Fisica mentre passava per Shanghai. Nel suo diario che ripercorreva il viaggio in estremo Oriente scrisse cose superficiali e stereotipi sulla Cina del tempo. È normale, spiega Ginzberg. «C’è chi rimane folgorato dalla Cina. E chi invece prova antipatia a prima vista, o addirittura repulsione». L’autore spiega che paradossalmente la Cina la conoscono meglio gli scrittori che non ci sono mai stati, come Jules Verne, Franz Kafka, Daniel Defoe, Italo Calvino, Bertolt Brecht, Mendes Pinto. Marco Polo e Matteo Ricci rimangono tra i migliori interpreti della Cina del loro tempo dalla prospettiva occidentale.

La Cina per l’occidente

François Quesnay, medico ed economista alla corte di Luigi XIV, aveva un’ammirazione sconfinata per il modello del dispotismo cinese. Cosa che Montesquieu condannò. Nella sua missione in Europa, Benjamin Franklin fece incetta di libri sulla Cina; mentre Thomas Jefferson espresse ammirazione per la Cina. Dei colleghi e amici italiani di Ginzberg, la Cina l’hanno visitata tra gli altri Frane Barbieri, Alberto Moravia, Dacia Maraini, Umberto Eco, Furio Colombo e Goffredo Parise. «La questione non è tanto esserci stati, o non esserci stati in Cina. Non basta vederla una volta, e neanche viverci a lungo. La Cina va pensata. Va studiata. Va interpretata […]. Andrebbe anche fantasticata. Come ogni rompicapo […] richiede non solo tecnica ma anche una buona dose di fantasia». Ginzberg torna sulla democrazia: credeva come tanti che senza la democrazia la Cina non avrebbe potuto crescere e che con internet la Cina si sarebbe dovuta aprire.

Non è andata così. Il che conferma che non basta vivere in Cina per anni per capirla. Nella parte finale, Ginzberg azzarda paragoni con gli Stati Uniti: Pechino e Washington in fondo si assomigliano. In entrambi i Paesi «la politica è più teatro che altrove». Cina e America condividono «lo stesso orgoglio nazionalista, la stessa […] passione per la bandiera, onnipresente, lo stesso […] senso di superiorità su tutti gli altri, la stessa identica idea di essere […] il perno del mondo». Sintetizzò Alexandre Kojève: gli americani sono in fondo dei cino-sovietici arricchiti e i cinesi invece americani ancora poveri. Per capire la Cina, bisogna capire che «cambiano le ricette, non gli ingredienti». «Un imperatore può essere sostituito da un altro, anche in modo brusco […]. Ma più importante, per gli autocrati, è stato sempre preservare la dinastia, far sì che la dinastia non perda […] la legittimità a governare».

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