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Ma ‘sto ADHD, alla fine, che cos’è? – parte 1

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Anna Chiara Borrello

Abbiamo incontrato Valentina, una donna a cui è stato diagnosticato l’ADHD da adulta, e la dottoressa Valentina Piras, neuropsicologa, conosciuta su Instagram come laneuropsy. Per tre settimane su theWise Magazine usciranno le loro interviste, nelle quali approfondiremo l’ADHD da due punti di vista. Quello personale di qualcuno che ci convive quotidianamente e quello di una specialista in neuropsicologia e psicoterapia a indirizzo integrato. Entrambe le interviste ci offriranno spunti di riflessione e, forse, un nuovo modo di vedere l’ADHD.

Leggi anche: Ma ‘sto ADHD, alla fine, che cos’è? – parte 2 e parte 3.

Nell’immaginario comune, quando pensiamo all’ADHD (Attention Deficit and Hyperactivity Disorder) c’è un bambino che corre e non sta fermo, e magari si mette nei guai. E forse pensiamo che passi con l’età, che crescendo poi si calmi. Non c’è immagine e pensiero più sbagliato. È pur vero che l’iperattività può manifestarsi in questo modo, ma in realtà la corsa, il non stare fermo, è solo un effetto secondario.

Bisogna cercare quello che succede nel cervello, è lì la vera iperattività. I pensieri scappano, troppo veloci per poter essere afferrati, e bisogna inseguirli, uno dietro l’altro. Anche la disattenzione altro non è che rincorrere un pensiero – o meglio mille pensieri – che distolgono da quello che si sta facendo, dicendo o ascoltando.

In alcune persone la disattenzione porta a rimanere persi nei propri pensieri: da fuori lo sguardo è fisso nel nulla, l’espressione sognante. Se si potesse guardare cosa succede dentro la scatola cranica, si vedrebbe un fermento di attività. Con l’età, tutto questo non sparisce. L’ADHD è un disturbo neurologico da cui non si guarisce, perché non è una malattia. È una neurodiversità; ossia, il cervello è “fatto” in modo diverso, funziona in modo diverso.

In Italia, molto spesso si ritiene che il disturbo da deficit di attenzione e iperattività, l’ADHD, riguardi solo i bambini, che sia una questione di sviluppo, e nonostante sia aumentata la sua conoscenza e quindi anche il numero delle diagnosi, molte, moltissime persone ormai adulte non sono mai state diagnosticate. Valentina ha quarant’anni e ha l’ADHD. Questa è la prima parte della sua intervista.

Foto: Freepik.
COME HAI SCOPERTO DI AVERE L’ADHD E QUANDO HAI AVUTO LA DIAGNOSI UFFICIALE?

«Io di avere qualcosa l’ho sempre pensato, però è una di quelle cose che dici: “No, è solo nella mia testa”. Poi qualche anno fa ho conosciuto una ragazza con una figlia con l’ADHD e mi sono riconosciuta in molti tratti di questa ragazzina, però inizialmente mi concentravo più su alcune cose che avevano i miei figli. È poi risultato che anche loro hanno l’ADHD, ma questo molto di recente.

Sono passati anni, non mi decidevo mai, poi a un certo punto nel 2017 o nel 2018 ho deciso di rivolgermi al dottor D’Alessandro, che mi ha fatto una pre-diagnosi senza test. Era una diagnosi provvisoria, come dice lui, che confermava i miei sospetti. Poi andando avanti ho avuto sempre più problemi di depressione, di burn-out, eccetera eccetera, e ho deciso di andare intanto in psicoterapia e solo poi di fare i test diagnostici.

Quindi ho chiamato il Polo S. Luigi Gonzaga di Orbassano, in provincia di Torino, ho prenotato la visita, sono salita su con tutta la mia documentazione scolastica… in realtà bastava leggere le mie pagelle per capire che qualcosa non andava. Lì ho avuto la diagnosi. Questo è successo nel 2020, in piena pandemia proprio, e infatti mi hanno fatto fare i test tutti nello stesso giorno per non farmi andare e venire troppe volte.

Invece la ragazzina l’ho conosciuta sette, otto anni fa, era in classe con mio figlio. È passato tanto tempo, io ci ho messo proprio tanto a decidermi di farlo. Anche per quel discorso di credersi sempre un po’ impostori, no? Quindi tutte le cose che possono sembrare da fuori: mi vedevo pigra, mi vedevo nullafacente…

Se da una parte mi riconoscevo nei sintomi, dall’altra comunque dicevo: “Sono io che sono pigra, sono io che sono così, perché non ci metto impegno, non mi sforzo abbastanza…”».

QUESTO CHE COSA HA COMPORTATO?

«Ho cambiato lavoro un sacco di volte, scuola superiore mai finita… mi ritenevo io, come penso la maggior parte degli ADHD, una persona poco volenterosa, che cerca la strada più facile…».

CHE DIAGNOSI TI È STATA FATTA?

«Combinata, con predominanza di disattenzione, e devo dire che sono più iperattiva adesso, rispetto a quando ero piccola, che ero iperattiva mentalmente. Avevo il pensiero velocissimo, con la testa andavo da un’altra parte; quindi, non è che mi alzavo dal banco per far casino, ma mi facevo tutte le mie storie in testa».

Foto: Freepik.
RACCONTACI DELLA SCUOLA.

«Non riuscivo ad ascoltare mezza lezione e uscivo da scuola come se fossi stata in miniera. Mi ricordo il sonno, gli occhi che si chiudevano, la pesantezza… la stanchezza atroce che avevo a scuola. Non riuscivo a concentrarmi su nulla, ad arrivare in fondo. Io perdevo i pezzi completamente, gli altri facevano cose che a me sembrava di non aver mai ascoltato».

E NEL LAVORO?

«Nel lavoro la cosa di cui mi sono sempre incolpata è che, dopo una o due ore di lavoro, io voglio scappare. Mi viene proprio la voglia di scappare. Non perché non ho voglia di lavorare, ma perché non ce la faccio più a stare lì nello stesso posto, a far le stesse cose, a completare un lavoro… per me è proprio una sofferenza fisica.

Infatti, più il lavoro è dinamico, meglio è. Il problema è che se anche trovo la cosa che mi piace, per me due ore di lavoro, come sto facendo adesso, è come lavorare otto ore, cioè esco che sono proprio stanca, come quando uscivo da scuola. Adesso sono in un posto dove mi sto trovando molto bene, mi pesa meno, però se devo fare un lavoro di fino per me è molto pesante rimanere concentrata.

La grande difficoltà è soprattutto riuscire a seguire le istruzioni. Ricevo degli ordini e per me fare le cose nell’ordine che mi viene dato è faticosissimo. Quindi la stanchezza è questo, cioè che io devo funzionare in un modo che non è il mio».

E COSA COMPORTA?

«Magari mi viene in mente la sera tardissimo di fare i panettoni e mi metto a farlo in quel momento. Lo decido io. La differenza con il lavoro è che devo farlo per forza in quell’orario e in quella modalità. Mentre quando faccio una cosa per me, è diverso. Spesso, però, io vorrei fare delle cose molto più complicate e non le faccio perché c’è troppo da leggere nella ricetta. Quando ero al corso di pasticceria, quando c’era da leggere un elenco con un procedimento, per me era difficilissimo. E infatti ora mi sto facendo un quaderno con le ricette tutte scritte a modo mio. Ho trovato un libro di cucina per bambini, ed è fantastico per chi è ADHD! Sono tutte figure! È bellissimo».

Mamma, cucino da solo! Preparare dolci deliziosi in autonomia secondo il metodo Montessori. Ediz. illustrata di Katia Casprini, Roberta Guidotti, Red Edizioni, 2021.
TU ABITI IN LIGURIA E HAI DETTO DI AVER FATTO LA DIAGNOSI A TORINO, COME MAI?

«Perché in Liguria non esiste ancora oggi un centro per la diagnosi dell’ADHD, specialmente nell’adulto, e quindi era quello più vicino. O vai privatamente, sennò per i bambini c’è neuropsichiatria. Non so da quant’è che stanno cercando di fare un centro ADHD qua in Liguria, ma anni e anni e ancora sono fermi lì. E non lo sanno neanche trattare. Non posso nemmeno dire che vado nel pubblico e amen, datemi qualcos’altro, seguitemi senza darmi la terapia giusta… no, non lo sanno proprio trattare. Ho chiamato il CSM, ospedali vari, ho chiamato tutto quello che potevo chiamare qua in Liguria, ma non esiste, non c’è. Quindi si può dire che in Liguria l’ADHD non esiste nell’adulto. Meno male!

Alla fine, ho preso appuntamento con questa dottoressa del CSM e dovrebbe essere ancora lei che prenderà in mano tutti i pazienti ADHD. Fatto sta che è una dottoressa molto giovane, che si sta formando, ma non ho trovato… non la professionalità, quella sì, ma non la conoscenza del disturbo. Sono stata messa praticamente alla porta. Ho chiesto se c’era anche la possibilità di avere una psicoterapia… ma no, no perché non li sanno trattare. Lei dovrebbe essere tra i medici preposti a diagnosticare, a fare i test, ma ancora mi pare che non abbia proprio le conoscenze giuste. È come andare da una psichiatra normale».

DICEVI CHE SEI ANDATA ANCHE DA UNO PSICHIATRA SPECIALIZZATO NELL’ADHD.

«Con il dottor D’Alessandro nemmeno parli e sa già cos’hai. È un altro mondo. È una differenza abissale, non una grande differenza, una differenza abissale proprio. Intanto non mi sono sentita, tra virgolette, umiliata. Non è che mi abbiano umiliata al CSM, ma mi hanno un po’ snobbato. Cioè, erano dispiaciuti, per carità, però come dire… “E vabbè, tienitelo”.

Mentre i medici che ne sanno, capiscono anche come trattarti. Perché anche gli psicoterapeuti che ho visto in questi anni, pur sapendo che non erano proprio specializzati nell’ADHD, hanno sempre avuto questo atteggiamento di: “Se vuoi, puoi”, “Concentriamoci sull’obiettivo”. No. Non è proprio così.

Finalmente qualcuno che ti dice: “Non sei tu che non hai voglia, ma hai ragione a sentirti così”. “Non è colpa tua se non riesci a fare delle cose, è perché proprio non puoi”.  E la cosa ideale è sapere non tanto come funzionare come un neurotipico, che è quello che ti fanno fare i dottori che non conoscono il disturbo, quanto come poter aggirare il problema e riuscire a rendere la nostra vita a nostra misura».

SEI ARRIVATA A COMPRENDERE DA SOLA, DA ADULTA, CHE AVRESTI POTUTO AVERE L’ADHD. È UNA COSA CHE SUCCEDE SPESSO, SECONDO TE?

«Sì, tanti fanno una auto-diagnosi, perché magari si confrontano con qualcuno che ce l’ha e iniziano a informarsi. E dopo quando vai a cercare un aiuto, sia da psichiatri che da psicologi che non conoscono il disturbo, ti senti dire: “Ma ti sei studiata tutto il DSM?”. Non è che me lo sono studiato, ma se nessuno mi dice che cosa ho, devo farlo da sola. Pensano che gli voglia insegnare. Dicono: “Magari solo perché l’hai letto su Google, allora ti sei convinta di averlo”. No, non è così. E invece quando vai da una persona esperta non ti dice che sei convinta, ma lo vede subito. Lo capisce subito».

Fine prima parte

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Anna Chiara Borrello

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