Continuano i nostri appuntamenti di approfondimento sull’ADHD. Abbiamo incontrato la dottoressa Valentina Piras, esperta nella diagnosi e nel trattamento dell’ADHD negli adulti. Insieme a lei, abbiamo affrontato i vari temi venuti fuori dall’intervista con Valentina, a cui rimandiamo.
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Abbiamo approfondito il problema della carenza in Italia di centri diagnostici per adulti, sia nel pubblico che nel privato. Un altro argomento legato alla diagnosi è che l’ADHD si accompagna spesso ad altri disturbi: i più comuni sono quelli dell’umore. Essi si possono manifestare sia insieme all’ADHD sia come conseguenza della mancanza di diagnosi da bambini. Da questo derivano le difficoltà nel riconoscere i sintomi e nel fare una diagnosi, soprattutto da chi non è stato formato.
Abbiamo anche parlato di deficit delle funzioni esecutive e di iperfocus, due aspetti in apparente contrasto, ma che dipendono dallo stesso meccanismo di funzionamento dell’ADHD.
CI PARLI DI LEI, DI CHE COSA SI OCCUPA?
«Io faccio soprattutto diagnosi di ADHD agli adulti. Sono consulente per l’AIFA, l’associazione delle famiglie ADHD, e poi, con i colleghi, faccio parte di RITA. RITA Studio è una rete italiana di specialisti nell’ADHD degli adulti, ne fanno parte le persone che nel pubblico e nel privato si occupano di adulti».
IN QUANTI SIETE?
«In pochi, quasi tutti psichiatri, credo una trentina, ma neanche. Facciamo diagnosi seguendo una metodologia il più scientifica possibile. Io, come specialista in neuropsicologia, oltre alla parte diagnostica, faccio anche i test della personalità. Lo faccio per escludere che non ci siano disturbi di personalità, perché nell’adulto si possono confondere. Ho moltissime richieste di valutazione, per dare un’idea, ho una lista di attesa fino a maggio».
COME FUNZIONA UNA VALUTAZIONE?
«Sono dai quattro ai sei incontri, in cui si fanno i questionari, il colloquio e i test neuropsicologici: funzioni esecutive, attenzione, memoria, ragionamento logico e intelligenza. Poi si fanno i test di personalità. In questi giorni inizia un gruppo online per persone neodiagnosticate per lavorare sulle strategie. Si chiama Neurogruppo».
LE RISULTA CHE SIA DIFFICILE TROVARE UN CENTRO CHE FACCIA LE DIAGNOSI AGLI ADULTI, SOPRATTUTTO NEL PUBBLICO?
«Sì, per dire in Lombardia ne abbiamo due. Sono quelli principali, poi potrebbero essercene altri che io non conosco. Oltre all’AIFA, anche i ragazzi del Cervello ADHD, sul loro sito adhdadulti.org, raccolgono i Centri pubblici e privati. Ci si può fare un’idea del numero, anche se non ci sono tutti. Abbiamo molte zone scoperte, come il Veneto.
E poi c’è la questione del farmaco, perché può dartelo solo uno psichiatra accreditato dall’ATS o dalla ASL. Inoltre, secondo le Linee Guida, gli adulti non potrebbero prendere il Ritalin, perché è indicato solo per bambini e adolescenti. Agli adulti bisognerebbe dare lo Strattera, ma a non tutti funziona».
SE QUALCUNO VA DA UNO PSICHIATRA CHE NON È SPECIALIZZATO, RISCHIA DI ESSERE MANDATO VIA O DI SENTIRSI DIRE CHE È QUALCOS’ALTRO. CHE COSA SI POTREBBE FARE AL RIGUARDO?
«È un problema legato alla formazione dei colleghi. L’ADHD è un argomento che non viene praticamente trattato all’università. Non viene trattato soprattutto nella manifestazione negli adulti e nelle donne. I criteri diagnostici del DSM-5 sono pensati sui maschi bianchi.
L’ADHD fa parte dei disturbi del neurosviluppo e la distribuzione ad oggi è di 2 a 1 a favore dei maschi. Dal momento che ricevono più diagnosi, il loro comportamento viene studiato di più e i loro sintomi sono inseriti nel manuale statistico.
Chi studia l’adulto sa che l’iperattività non si manifesta con “mi arrampico sulla scrivania”. È compito del clinico riuscire a comprendere come il paziente manifesta i comportamenti e fare la differenza con quelli dell’età evolutiva. Inoltre, nelle femmine si manifestano comportamenti diversi già in età evolutiva, le bambine tendono a fare più camouflaging e quindi ad adattarsi di più al contesto sociale.
Per cui, se chiedo a una donna adulta se da piccola correva di qua e di là, non posso aspettarmi che la risposta sia sempre “sì”. Sta alla nostra capacità discernere tra un sintomo manifesto e uno camuffato, e anche comprendere se questo sintomo è un disturbo o una caratteristica sottosoglia. Se si è sottosoglia, non si riceve la diagnosi».
SE L’ADHD NON VIENE DIAGNOSTICATO IN ETÀ EVOLUTIVA, È PROBABILE CHE SOPRAGGIUNGANO ALTRI DISTURBI?
«Può succedere che le persone, ad esempio, arrivino a un forte perfezionismo, per compensare gli errori che sanno di commettere per disattenzione. Oppure hanno un comportamento eccessivamente controllato per cercare di inibire l’impulsività o l’iperattività. Si spinge su tratti della personalità, che non creano per forza un disturbo, ma che possono creare disagio.
Potrebbe capitare anche in caso di diagnosi, perché l’ADHD si concorre con disturbi dell’umore o di natura psichiatrica».
E QUESTE MANIFESTAZIONI DI DISAGIO POTREBBERO SEMBRARE TALI DA QUALCUNO CHE NON È SPECIALIZZATO IN ADHD?
«È per questo che spesso arrivano persone con diagnosi errate di disturbi della personalità o altri disturbi di natura psichiatrica».
NELL’INTERVISTA PRECEDENTE, VALENTINA DICE DI ESSERE ANDATA IN UN CSM DELLA SUA ZONA DOVE LE AVREBBERO DETTO: “TI SEI LETTA LE COSE SU GOOGLE E PENSI DI AVERLO”.
«Questo capita spesso, ecco perché è importante affidarsi alla persona giusta. Addirittura, a volte, parlo con terapeuti che mi dicono “No, secondo me non è ADHD, è tutt’altro”».
CAPITA ANCHE CON LA DIAGNOSI?
«Sì, svalutando il lavoro di chi ha fatto la diagnosi. A me è capitato che una paziente mi raccontasse che, dopo aver ricevuto la diagnosi in un altro centro, fosse poi andata in un CPS (cioè il CSM di qui), dove una persona le avrebbe detto che l’ADHD viene solo ai bambini, come se poi questi bambini sparissero con la crescita.
C’è un problema di formazione dei colleghi, come dicevamo, e cercheremo di mettere una pezza il più possibile e di proporre una formazione più completa. Il problema è che non c’è proprio la formazione. Se ti interessa il tema, devi cercare la formazione apposta, sennò non viene proposta. Invece tra chi si occupa di età evolutiva, il 90 per cento credo che abbia gli strumenti per fare i test».
VALENTINA RIFERISCE CHE NON HA FINITO LA SCUOLA: È UNA COSA TIPICA?
«Uno scenario tipico è il caso di Valentina, con abbandono scolastico a volte anche prima dell’università. Un altro è che tutto funzioni bene finché sono all’interno della scuola dell’obbligo e hanno delle direttive da seguire. Quando poi arrivano all’università, la grossa fatica è l’organizzazione degli esami, a quali dare priorità, come dividersi lo studio.
Ci sono persone che riescono a portare a termine gli studi, ma con grossissime fatiche, con situazioni di burn-out; oppure che, terminato il percorso scolastico, iniziano un lavoro che svaluta le loro competenze, tranne in rari casi in cui si è imboccata la strada giusta. Il funzionamento non è in linea con quanto studiato e quindi potrebbe essere molto difficile stare in quei panni».
DICE, POI, CHE HA CAMBIATO MOLTI LAVORI.
«È un pattern tipico cambiare lavoro, licenziarsi o nei casi peggiori essere licenziati. A volte proprio perché fanno ritardo, non assolvono agli obblighi. Oppure si licenziano perché, dopo l’effetto novità, che è una caratteristica tipica dell’ADHD, perdono l’interesse e mollano il colpo. La ripetitività e la noia smorzano l’entusiasmo dell’impulsività».
VALENTINA PARLA ANCHE DELLE DIFFICOLTÀ A SEGUIRE LE ISTRUZIONI.
«Questo dipende dai deficit delle funzioni esecutive. Sono le principali funzioni cognitive coinvolte, oltre all’attenzione. La fatica è data dal portare a termine un compito seguendo i passaggi: non è comprendere i passaggi, ma procedere con logica. Succede a causa delle difficoltà nella memoria di lavoro o delle funzioni di astrazione, come rendersi conto del tempo da stimare».
INFATTI, VALENTINA DICE CHE SE POTESSE FARLO COME VUOLE, MAGARI ARRIVEREBBE A FARLO.
«Seguendo una strada diversa. Dipende anche dalla difficoltà a iniziare l’azione, che nel gergo viene chiamata “paralisi ADHD”. Non è una vera e propria paralisi, ma c’è una sensazione di sopraffazione dalle cose da fare, proprio perché non riescono a organizzarsi, a dare un senso di priorità. A volte può durare per giorni».
DALL’ALTRO LATO, C’È IL FAMOSO IPERFOCUS.
«Che non è così simpatico come sembra».
CHE COS’È L’IPERFOCUS?
«L’iperfocus può essere utile, è una focalizzazione eccessiva della concentrazione sostenuta, che è la capacità di mantenere a lungo l’attenzione sullo stesso compito. Il punto è che la persona si ingaggia in un compito piacevole, ma senza valutare il limite da attribuire a questo compito.
A volte le persone arrivano a non riconoscere il proprio limite, anche fisiologico, come bere, andare in bagno o mangiare. Oppure c’è un appuntamento e arrivano in ritardo o lo rimandano, generando una serie di fatiche di natura relazionale.
Questo perché si ingaggiano in compiti da cui non riescono a sganciarsi. Sganciarsi da un compito dipende dalla capacità di inibire questa iperfocalizzazione attentiva e fa di nuovo parte dei deficit delle funzioni esecutive. Quindi non è che una persona lo fa perché gli va.
Si manifesta anche nelle relazioni. Vanno, in gergo, “in fissa” per una persona. Rischiano di sviluppare dipendenze oppure difficoltà a coltivare relazioni in maniera sana e quando la persona perde di effetto novità, dicono addio».
NEL CASO DI VALENTINA, QUANDO DICE DI FARE I PANETTONI, POTREBBE TRATTARSI DI IPERFOCUS.
«L’iperfocus è anche legato al bisogno di conoscere sempre di più, quindi non basta sapere come si fa un panettone, ma devo sapere come lo fa Iginio Massari. Devo conoscere ogni singolo dettaglio, perdendo la concezione del generale. Fare il panettone alla fine non è più neanche piacevole.
È spesso legato all’effetto novità, alla componente impulsivo-iperattiva, e le persone fanno scelte economiche poco sagge. Si trovano con il garage pieno di pattini e tute da sub per un’attività che magari hanno fatto una volta».
O ANCHE COMPRARE TUTTO E POI PERDERE INTERESSE, SENZA NEANCHE INIZIARE.
«Passato l’effetto novità, non interessa più».
PARLANDO DEI FARMACI, SONO CONSIDERATI UNA DROGA. È OPINIONE COMUNE CHE SI CERCHI LA DIAGNOSI PERCHÉ SI VUOLE LA DROGA.
«Come dicevamo prima, non è facile averli. Se fosse semplice, come avviene in America, allora si direbbe: “Vuoi la diagnosi per questo”. Quasi mai c’è un secondo fine in un adulto. Sono casi rarissimi, anche perché la diagnosi in sé non dà quasi mai accesso a invalidità o indennità, a meno che non ci siano altri disturbi associati. E poi i farmaci sono a pagamento, ci sono quelli da 5 euro e quelli da 50 e più».
VALENTINA, POI, DICE CHE IL FARMACO NON È STATO UN MIRACOLO.
«Il beneficio è lavorarci insieme. Fare la parte di psicoterapia e insieme alla parte farmacologica, per trovare strategie diverse da quelle provate prima. E comunque si funzionerà sempre così, il farmaco aiuta a ridurre l’impatto della sofferenza sulla vita quotidiana».
OLTRE ALLO STIGMA DEI FARMACI, ESISTE QUELLO IN GENERALE SULL’ADHD, PERCHÉ VIENE PRESO COME UNA COSA PER BAMBINI.
«O di moda».
OPPURE CHE NON È GRAVE. TUTTI PERDONO LE CHIAVI DELLA MACCHINA.
«Ricordiamoci che l’ADHD è motivo di grossa sofferenza. È un funzionamento che porta ad avere un impatto sulla vita quotidiana. Non è perdere le chiavi una volta nella vita, ma perderle di continuo. C’è un test che si chiama proprio Ricerca delle chiavi. Il paziente deve indicare che strada farebbe per ritrovare le chiavi perse e ridono tutti, perché gli capita tutti i giorni.
Non è una questione di: “Sono sotto stress per gli esami dell’università e perdo le cose”. È una cosa che esiste dall’età evolutiva, senza sosta, che può avere avuto più o meno periodi di compensazione. Dopo la diagnosi la vita cambia, non sempre in meglio. Ci sono dei periodi di sofferenza di cui bisogna prendersi cura, ma avere la diagnosi significa avere più consapevolezza per stare meglio».
COSA NE PENSA DELL’RSD (rejection sensitive dysphoria)? IN ITALIA NON VIENE MOLTO CONSIDERATO.
«Ci sono una serie di cose che non vengono considerate, come la dismorfofobia o l’ipersensibilità sensoriale. L’RSD fa parte dell’ipersensibilità. È un grosso senso di inadeguatezza che porta le persone ad avere dei comportamenti accondiscendenti nelle relazioni o la tendenza ad autoescludersi. Questo perché si sentono rifiutate, anche in situazioni in cui non lo sono, a causa dalla forte inadeguatezza percepita a livello sia cognitivo che relazionale».
ALLA FINE, VALENTINA PARLA DEGLI “ADHD CHE CE L’HANNO FATTA”, I QUALI DICONO CHE L’ADHD È BELLISSIMO E CHE TUTTI CE LA POSSONO FARE. QUESTO PROVOCA SOFFERENZA.
«Non per tutti è così bello nemmeno il processo diagnostico, anche con la persona più accogliente del mondo, perché ti senti sotto valutazione, sotto stress. Dopo la diagnosi si ha un senso di sollievo, ma spesso anche un senso di smarrimento. Perché è vero che magari c’è chi ha finito l’università mentre faceva tre lavori, perché così compensava la noia. Però c’è anche chi ha un’età piuttosto matura e non riesce a mantenersi un lavoro o a vivere in maniera indipendente.
Come tutto quello che vediamo sui social non è bello, immagino che anche quelli che ce l’hanno fatta nascondano un pezzettino di dolore. Secondo me, vale la pena focalizzarsi sul proprio percorso di vita e chiedersi che cosa posso fare per stare meglio io».