Per ognuno di noi è scontata la libertà: poter guardare il cielo di notte, uscire con gli amici, pranzare in famiglia. Non lo è stata per Rudy Guede. Per la sua riconquista della libertà ci sono date, passaggi e persone che lo hanno accompagnato dalla notte del primo novembre 2007, quando nelle tenebre di una Perugia reduce dalla notte di Halloween si è consumato il delitto di Meredith Kercher.
Una vicenda tragica e ancora da decifrare. Benché i nomi delle persone coinvolte abbiano occupato pagine di giornali, reportage televisivi, libri di memorie e di inchiesta, c’è una voce che non ha trovato lo spazio che meritava, quella di un ragazzo ritrovatosi nel posto sbagliato al momento sbagliato, un “vaso di coccio tra vasi di ferro”.
Oggi theWise Magazine ha il piacere di ospitare Pierluigi Vito e Rudy Guede per dare spazio alla sua stessa storia e concedergli Il beneficio del dubbio (Augh! Edizioni, 2022).
«Domanda complessa a cui rispondere. Cominciamo con il dire che il libro è nato dietro le sbarre del carcere di Viterbo, dove Rudy ha scontato la sua pena. Io l’ho incontrato su suggerimento di un amico che fa volontariato nel penitenziario: dopo tanti anni in cui ha seguito il percorso di reinserimento di Rudy, ha pensato che con il mio aiuto sarebbe stato possibile raccontare una storia su cui tanti pensano di sapere tutto.
Invece io stesso, incontrando Rudy, ho potuto toccare con mano quanto lui sia stato gettato in una narrazione “sviata”, diciamo così. E noi abbiamo provato a riscriverla: all’inizio con carta e penna, tutto quanto potevo portarmi nella stanzetta di due metri per tre in cui avvenivano i nostri colloqui. Abbiamo cominciato leggendo le sentenze che lo riguardano, una scelta voluta dallo stesso Rudy, per partire dalle motivazioni che lo hanno portato in una cella. Ma subito ci siamo spostati a ragionare su quello che le sentenze non descrivevano, ovvero il vissuto di un bambino strappato alla madre e arrivato in Italia dalla Costa d’Avorio, cresciuto con un padre che non si è mai veramente preso cura di lui, diventato un ragazzo sensibile e generoso grazie all’aiuto di amici e delle loro famiglie che lo hanno supportato nei momenti più difficili.
Ovviamente nel raccontare la sua storia bisognava passare dalla notte del 1 novembre 2007, dal brutale omicidio di Meredith Kercher, ma pure dai giorni precedenti, per capire le connessioni tra le parti coinvolte nella vicenda e soprattutto la ricostruzione di Rudy di quei momenti drammatici. Nella tua domanda accennavi al “credere nella sua versione” dei fatti; ecco, questa è un’opzione che lasciamo alla piena liberta del lettore. Il libro non è nato per convincere qualcuno, ma per fornire al pubblico una voce che non è riuscita a trovare uno spazio adeguato, insieme a riflessioni che guardano sia al percorso giudiziario del caso (mirabile, in questo senso, è il contributo del criminologo Claudio Mariani) ma pure agli effetti della condanna, all’esperienza carceraria, alla forza di volontà e all’impegno riversato da Rudy per ricostruire il proprio presente e il proprio futuro.
Che ora è quello di un uomo che ha pagato il debito con la giustizia, sta costruendo relazioni profonde e significative in una città che ha scoperto mettendo il piede fuori dalla prigione, lavora e paga tasse e bollette da buon cittadino. Ed è capace di gesti di generosità: lui stesso ha voluto che parte dei diritti d’autore del libro vengano destinati all’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù.
Non sto dicendo che il libro è il ritratto di un santo, ma di un ragazzo con i suoi pregi e i suoi difetti, le sue responsabilità e le sue scusanti, che ha saputo reagire ai colpi del destino con tenacia e modestia».
«La mia libertà, quella fisica e storica, ha una data ben precisa: 25 giugno 2016, il giorno in cui dopo oltre otto anni metto piede fuori dal carcere per il mio primo permesso premio. Detto questo, però, la mia libertà intrinseca nasce dalla consapevolezza di sapere di essere un uomo innocente: perciò, anche se ero in un luogo ostile sapevo di essere un uomo libero».
«Più che pregiudizi credo si debba parlare di una forma di ignoranza riguardo a tutta la vicenda che, ahimè, mi ha visto coinvolto. Molte persone non hanno la giusta informazione riguardo al quadro generale e quel poco che sanno sono tutte informazioni distorte. Per quel che mi riguarda, riprendere in mano la mia vita non è stato un problema».
«Il perché a questa domanda credo debba essere chiesto ai giornali. Riguardo al fatto che la mia voce sia stata sentita meno, la ragione è presto detta: è stata soffocata dalle numerose falsità e calunnie che sono state rivolte contro la mia persona».
«Quello che affermo è che mi sono ritrovato a vivere una situazione più grande di me: un ragazzo di vent’anni di fronte a un orrore indicibile, come la morte della povera Meredith. Io ho cercato di soccorrerla – lo dicono anche le sentenze che mi riguardano – ma non sono stato capace di fare una cosa semplice come uscire di casa per chiedere aiuto, perché era sconvolto, come racconto nel libro. Detto questo, ci tengo a precisare che non mi sono mai definito un capro espiatorio».
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«Prima di tutto ho lottato fino in fondo per la mia libertà, e tuttora lo sto facendo. Il rito abbreviato non è un’ammissione di colpa, ricordiamolo. Il perché l’abbia scelto? Beh, su consiglio dei miei legali prima di tutto: ribadisco, ero un ragazzo di vent’anni che non sapeva affrontare una cosa del genere; ero consapevole della mia innocenza e confidavo che chi aveva più esperienza di me mi avesse indicato la strada più opportuna».
«Se si vanno a leggere le carte della mia condanna in concorso, si nota che sono gli stessi giudici ad affermare che: 1) non ho ucciso io Meredith; 2) non ho niente a che fare con l’arma del delitto; 3) non ho niente a che fare con la simulazione di effrazione posta in essere nell’abitazione; 4) ancor più importante, mi hanno assolto dal reato di furto “per non aver commesso il fatto”. Ora, ditemi voi se si può essere condannati senza alcuna colpa. La calma e la lucidità durante il processo e la detenzione? Sapevo di essere innocente e l’unica strada che avevo era quella di affrontare ogni situazione a testa alta».
«Quella del carcere può essere, e lo è nella stragrande maggioranza dei casi, un luogo dispersivo e di disperazione, di sicuro non riabilitativo; la differenza la fanno le persone che vi lavorano o che per una ragione o per l’altra vi si possono incontrare. Nel mio caso sapevo che era un luogo che non mi apparteneva, perciò ho fatto il tutto per uscirne il prima possibile».
«Questa vicenda mi ha lasciato tanto, mi ha scavato e lacerato fin nell’animo, mi ha fatto conoscere me stesso, mi ha mostrato la bontà delle persone e la loro crudeltà, mi ha mostrato una forza d’animo che non sapevo di avere, ma ancor più mi ha dato una resilienza che ha generato la forza per non mollare mai».
«Per quale motivo avrei dovuto?».
«Sì, questa è la vita: non importa cosa ti succede o ti potrà succedere, quello che fa la differenza è come affronti ogni avversità e come guardi il male che ti hanno fatto».
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