Il susseguirsi in pochi giorni dell’arresto di Matteo Messina Denaro e dello sciopero della fame di Cospito hanno un denominatore comune: il regime di detenzione al 41-bis. Dati i predetti fatti di cronaca, il dibattito della politica e dell’opinione pubblica si è concentrato su questo particolare articolo, generalmente ricondotto ai reati di stampo mafioso. Occorre dunque chiedersi, in primo luogo, cosa sia il 41-bis e, poi, se sia una norma giusta ed efficace o se sia contraria alla dignità umana e, in particolare, a quella dei detenuti.
L’articolo 41-bis è una disposizione introdotta nell’ottobre del 1986 all’interno dell’Ordinamento penitenziario, ossia l’insieme di norme che regolano il funzionamento delle carceri e la detenzione di cui alla Legge n.354 del 1975. Inizialmente l’applicabilità del cosiddetto “carcere duro”era limitata alle sole situazioni emergenziali interne alle carceri; poi, successivamente alle stragi di via D’Amelio e Capaci, la norma si estende, sempre previo provvedimento dell’autorità competente, ai detenuti facenti parte di organizzazioni di stampo mafioso. Nell’intenzione originaria del legislatore, l’articolo 41-bis avevacarattere temporaneo e ciò per far fronte all’emergenza delle stragi di mafia anche se, come spesso avviene nei provvedimenti legislativi in Italia, divenne poi permanente nel 2002.
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Con l’introduzione permanente del carcere duro, l’articolo 41-bis viene modificato dal legislatore in modo di adeguarlo ai diversi provvedimenti della Corte Costituzionale intervenuti in precedenza. Di particolare importanza, da questo punto di vista, è la scelta di subordinare l’applicabilità dell’istituto alla previa verifica in concreto dell’esistenza di rapporti o legami con l’associazione criminale. Significativa anche la previsione di numerosi contatti fra gli organi inquirenti e il ministero di Giustizia e la possibilità, per il detenuto, di presentare reclamo al Tribunale di Sorveglianza.
Il legislatore è da ultimo intervenuto, nel 2009, limitando i poteri del Tribunale di Sorveglianza e introducendo la possibilità di rinnovare la condanna al regime detentivo speciale ogni due anni, qualora vi siano ancora concrete possibilità, per i detenuti, di avere collegamenti e rapporti con l’associazione criminale.
L’articolo 41-bis regola le situazioni di emergenza che possono verificarsi all’interno del carcere, in caso di rivolta ad esempio, o qualora vi sia pericolo per la pubblica sicurezza, anche in relazione al detenuto e ai suoi rapporti con l’esterno. Oltre alla sicurezza interna al carcere, il 41-bis si applica anche ai condannati per associazione mafiosa o, comunque, a chi ha commesso un delitto con metodologia mafiosa, a chi abbia agevolato tali associazioni o, ancora, quando vi siano elementi che possano far ritenere la sussistenza di legami con associazioni mafiose, di terrorismo o eversive.
L’articolo 41-bis, in particolare, prevede un regime carcerario particolarmente stringente nei confronti dei detenuti a cui si applica. Essi, infatti, devono essere reclusi in una struttura esclusivamente dedicata, possibilmente in aree insulari, con personale della polizia penitenziaria specializzato o, comunque, all’interno di sezioni specializzate di altre carceri, logisticamente separati dagli altri detenuti.
I colloqui, per questi detenuti, sono consentiti solamente con familiari e conviventi, nel limite di una volta al mese. Gli stessi avvengono in apposite stanze che non consentono il passaggio di oggetti e sono sottoposti a controllo auditivo e registrazione.
Agli stessi detenuti vengono inoltre limitate le somme e gli oggetti che essi possono ricevere dall’esterno. Viene, poi, controllata ed eventualmente censurata la corrispondenza.
Per quanto riguarda la vita carceraria, la permanenza all’aperto viene limitata a due ore al giorno per un massimo numero di quattro detenuti. Durante la stessa si adottano tutti gli accorgimenti necessari per evitare comunicazioni fra appartenenti a diversi gruppi.
Come si può osservare, lo scopo della norma è principalmente quello di prevenire contatti con l’associazione, mafiosa o terroristica, di provenienza o con altre associazioni contrapposte, sia attraverso contatti con l’esterno, sia dal contatto diretto con altri detenuti andando a ledere il principale componente di tali associazioni: il controllo del territorio.
Il regime di “carcere duro” viene meno nel caso in cui i detenuti decidano di rendersi collaboratori di giustizia.
Consapevoli, a questo punto, del contenuto della norma e dello scopo dalla stessa prefissato, occorre rilevare che, per parte dell’opinione pubblica, il 41-bis appare particolarmente problematico, se non degradante per l’individuo.
Innanzitutto l’articolo 41-bis rende più difficile, se non impossibile, la funzione rieducativa della pena. I detenuti sottoposti a tale regime, oltre a non poter aver contatti con l’esterno se non nei limiti già visti, non possono frequentare corsi di formazione e istruzione o accedere ai lavori socialmente utili. La rieducazione è uno dei principi fondamentali del trattamento carcerario, un diktat di rango costituzionale che permette alla pena di non essere semplicemente afflittiva o preventiva, ma diretta al reinserimento sociale del reo. La pena, dunque, muove a uno scopo ben preciso che, in questi casi, viene abbandonato in favore di una detenzione fine a sé stessa rischiando, così, pericolosi sconfinamenti verso un trattamento disumano e degradante.
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D’altro canto, non occorre però confondersi: lo scopo del regime speciale non è solo quello di una maggior afflizione nei confronti del detenuto.
Da un lato, come abbiamo visto, esso mira a recidere eventuali rapporti con l’associazione. Dall’altro, ha una funzione di incentivo, per lo stesso detenuto, di collaborare con la giustizia e, da ultimo, ha altresì una funzione preventiva nei confronti dei soggetti in libertà. Questi ultimi, dietro la minaccia di una sanzione più grave, dovrebbero essere dissuasi dal porre in essere condotte illecite dello stesso tipo o, comunque, a interrompere eventuali rapporti in essere.
Il tema dell’articolo 41-bis risulta, così, particolarmente complesso in quanto coinvolge diversi diritti fondamentali. Con riferimento ai principi costituzionali, la compressione e non l’esclusione dei diritti dell’uomo trova qui un particolare bilanciamento con un altro importante principio costituzionale, ossia quello della tutela della pubblica sicurezza e dell’ordine pubblico considerato, al netto del bilanciamento, prevalente.
Non bisogna scordarsi che il “carcere duro” non ha lo scopo di essere permanente ma quello di interrompere i rapporti fra il detenuto e le associazioni criminali esterne. Un regime che, se lo stesso condannato si rende collaboratore di giustizia, si interrompe in favore dell’ordinario e che resta in essere unicamente in relazione alla condotta, pericolosa, del carcerato in merito ai rapporti con la propria associazione di riferimento. L’istituto, dunque, non è da demonizzare o abbandonare ma, piuttosto, ci si deve chiedere se sia possibile trovare un bilanciamento tra la lotta alla criminalità organizzata e il fine rieducativo della pena garantendo, però, la massima tutela della collettività che, in ogni caso, prevale sul singolo.
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