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Il febbraio dei congressi, seconda parte: il Partito Democratico

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Giacomo Stiffan

Febbraio è un mese caldo per il Partito Democratico che, dopo la debacle delle scorse elezioni politiche e in concomitanza alle regionali in Lombardia e Lazio, affronta un congresso molto sentito.

Dopo la prima parte, dedicata a +Europa, andiamo quindi a delineare la situazione dell’altro partito che in questo febbraio va a scegliere il nuovo segretario.

Leggi anche: Il febbraio dei congressi, prima parte: +Europa.

La situazione post elezioni

Se approcciamo il problema dal punto di vista dei numeri, la prestazione del Partito Democratico alle politiche dello scorso settembre non è certo stata una vittoria.

Tuttavia, a ben vedere, non è nemmeno stata una disfatta totale.

I pronostici del giorno prima erano infatti nerissimi e aver portato a casa il secondo posto non è cosa da poco. Un dato in particolare rende il boccone meno amaro: nonostante nel frattempo siano fuoriusciti Renzi con Italia Viva e Calenda con Azione (poi alleatisi nel Terzo Polo), il Partito Democratico ha grosso modo mantenuto la stessa percentuale al proporzionale rispetto a quattro anni prima. Un risultato più che dignitoso, e niente affatto scontato sebbene in valore assoluto molti voti siano andati persi.

A rompere le uova nel paniere sono stati i seggi dei collegi uninominali, combattuti con le armi spuntate di una coalizione monca e per nulla concorrenziale dopo il voltafaccia di Carlo Calenda ad accordi già presi. Seggi, gli uninominali, che pesano per ben il 37 per cento del totale e che hanno compresso la presenza dem in Parlamento.

Quanto alla figura del segretario, se consideriamo che i suoi concorrenti non si sono mai dimessi nemmeno in situazioni molto più gravi (tra i tanti, Matteo Salvini), la scelta di Enrico Letta di dimettersi è la cartina tornasole di una forte tensione all’interno del partito, che non era più sostenibile in primis proprio dal segretario.

Il congresso

Nella tradizione della sinistra il congresso è un momento molto sentito, nel quale il partito si prende il tempo che serve per analizzare i problemi e definire una strategia che i nuovi organi eletti andranno a implementare.

Negli ultimi lustri questa dinamica è andata semplificandosi. Il congresso è diventato più che altro il momento della sfida tra i vari candidati e le loro diverse visioni del partito, una scelta tra pacchetti “prendere o lasciare” e un regolamento di conti interno, più che un momento di condivisione e di compromesso tra le varie correnti.

In questo, il contributo di Matteo Renzi è stato fondamentale. Molti militanti ancora ricordano le discussioni nei circoli e una frase spesso ripetuta dai suoi rappresentanti: «Chi vince decide». Frase che può sembrare naturale a chi non conosce le dinamiche del mondo dem. È un atteggiamento che a sinistra risulta indigesto a molti militanti, per i quali il leader non dovrebbe essere quello che comanda bensì quello capace di fare sintesi per unire il partito.

L’intervista

Per parlare del congresso dem, theWise Magazine ha raggiunto Davide Giacomin, segretario provinciale di Vicenza, il più giovane in questo ruolo in tutta Italia. La sua età non deve trarre in inganno: la gavetta da militante del partito c’è, così come una precedente esperienza quale segretario provinciale dei Giovani Democratici, la giovanile del PD.

Davide Giacomin.

Quali sono le fasi del congresso? Chi può votare?

«Il 13 febbraio i tesserati sono chiamati a votare i quattro candidati del PD con il voto interno. I due più votati si presenteranno a una sorta di ballottaggio il 26 febbraio, che avrà la modalità delle primarie aperte: questo significa che tutti possono votare, tesserati e non, pagando un contributo spese di due euro.»

Chi sono i candidati?

«Sono Paola De Micheli, Elly Schlein, Stefano Bonaccini e Gianni Cuperlo [le mozioni, ovvero le proposte programmatiche e valoriali dei candidati, sono disponibili qui, ndr]. Sono quattro candidati stimabili, con esperienze e sensibilità diverse ma importanti. Sono certo che i candidati che non vinceranno saranno di sostegno al partito e coopereranno in maniera leale con il segretario o la segretaria vincente.

Tutti ci attiveremo dal giorno dopo il voto per definire una ricetta per affrontare le grandi sfide di oggi e domani che attendono il nostro Paese. Pensiamo alla precarietà del lavoro, alle trasformazioni tecnologiche, alla transizione ecologica, alla gestione del welfare, collegato anche alla denatalità».

Il congresso è un momento nel quale l’iscritto dovrebbe essere al centro dell’attenzione. Secondo te la base si sente coinvolta o vedi meno entusiasmo rispetto ai precedenti appuntamenti?

«Secondo me il congresso è per il Partito Democratico una grande vetrina di democrazia interna, e anche di partecipazione ed entusiasmo. Tutti elementi che secondo me compongono il vero essere del PD. Ovviamente la stagione che stiamo vivendo in questo periodo è meno vantaggiosa dal punto di vista dei dati dei sondaggi, però da segretario provinciale percepisco dalla mia provincia un grande entusiasmo verso questo congresso. C’è una grande voglia di rilancio, di orgoglio e di riscatto dopo questi mesi difficili per il nostro partito».

A proposito di democrazia interna, non è la prima volta che si parla di candidati esterni, che vorrebbero guidare il partito iscrivendosi all’ultimo momento. Questa volta però, a vedere i social, sembra che ci sia un movimento simile anche nella base, con molte persone che dichiarano di fare la tessera solo perché interessati a sostenere l’outsider. Questo fenomeno è reale o solo virtuale? C’è stato un aumento degli iscritti negli ultimi mesi?

«Il fatto che ci siano neoiscritti come candidati alla segreteria è una cosa secondo me positiva. È un segnale di apertura verso altri mondi di centrosinistra e un segnale di democrazia interna del nostro partito. Saranno poi i voti di chi si recherà a votare alle primarie aperte a decidere chi sarà il migliore tra i candidati.

Il fenomeno delle nuove tessere a livello della provincia di cui sono segretario non è percepibile, ma è anche vero che Vicenza è una provincia particolare. Il PD vicentino è virtuoso, e siamo una delle poche realtà in Italia che continua a fare iscritti con regolarità. Rispetto alle altre province noi faremo probabilmente gli stessi iscritti dell’anno scorso, quando ci sono territori che hanno perso il 30 o 40 per cento delle tessere.

Questo è dovuto al grande lavoro che fanno i militanti nei circoli del territorio e alle tante iniziative prese, trenta solo negli ultimi sessanta giorni, che hanno coinvolto più di duemila persone. Vanno da temi come la sanità pubblica e territoriale fino a questioni più strutturali legate al welfare, alle pensioni, alla sostenibilità ambientale e alla transizione ecologica. Oltre a tutti gli eventi fatti dai nostri amministratori sul territorio sul tema dei fondi del PNRR, e di come portarli a terra al meglio».

Perché il PD ritiene così importante che si tengano delle primarie aperte, consentendo di far scegliere il segretario anche ai non iscritti?

«Siamo l’unico grande partito in Italia che crede ancora nella partecipazione popolare per determinare la classe dirigente del partito stesso. Tutti i partiti leaderistici hanno un inizio, un apice e una fine. Il PD, con i suoi strumenti di selezione della classe dirigente dal basso, sebbene dia meno stabilità, permette un costante rinnovamento e di conseguenza introduce nel partito nuove idee, nuovi leader e nuova linfa vitale. In tal senso, le primarie aperte sono un modo unico per far partecipare le persone nella scelta della classe dirigente».

Non c’è il rischio di svalutare la tessera del partito, perdendo l’occasione di coinvolgere i simpatizzanti in maniera più attiva attraverso il tesseramento?

«No, perché gli iscritti selezioneranno comunque i due candidati per le primarie aperte scegliendo tra i quattro disponibili».

Molti attivisti lamentano di essere interpellati solo al momento del congresso, mentre poi le decisioni strategiche vengono decise da un numero ristretto di persone. lo stesso Letta non è passato dal voto degli iscritti, ad esempio. Altri partiti hanno optato per la consultazione diretta online (M5S) o per congressi più frequenti (ogni due anni per +Europa). Sono allo studio sistemi per aumentare il dialogo tra la base e la leadership del partito?

«Quello che segue è il mio pensiero personale, i quattro candidati hanno le proprie tesi a riguardo. Io credo che la via maestra sia dare sempre più peso alle federazioni provinciali affinché i circoli, gli iscritti, i militanti e i simpatizzanti possano incidere in maniera più diretta nelle sedi dove si prendono le decisioni più importanti. Se si riuscisse a decentrare almeno in parte i luoghi della decisione politica partitica, secondo me si riuscirebbe a coinvolgere molto di più la base nel processo decisionale. Si tratta di fare un investimento sui nostri tesserati».

Il PD sembra schiacciato tra Movimento 5 Stelle e Terzo Polo, e costretto a scendere a patti con uno dei due, quantomeno durante le elezioni. Come si collocano i candidati in Lizza, a tal proposito? Chi è più favorevole a un’alleanza con il Terzo Polo e chi con i 5 Stelle?

«Penso che il PD, più che proporsi come l’alleato di uno o dell’altro debba definire a quale target di elettore si vuole rivolgere: se quello più di sinistra sinistra e per certi versi populista vicino a Conte, o quello più riformista vicino al Terzo Polo. Il partito deve decidere quale di questi due elettorati vuole “aggredire”.

A mio modo di vedere, credo che la Schlein cercherà di puntare sull’elettorato di Conte. Ovviamente è un’operazione molto complessa, in quanto vediamo dai sondaggi come Conte sia riuscito a far concentrare su di sé il consenso di quell’area.

D’altra parte ritengo che Bonaccini e la sua grande capacità in veste di amministratore – ricordo che in Emilia Romagna i minorenni non pagano nessun tipo di trasporto pubblico regionale e c’è un biglietto unico per tutti i mezzi – possa essere il leader che più si rifà all’ispirazione maggioritaria del partito e che possa sicuramente parlare all’elettorato più riformista del Terzo Polo, ma allo stesso tempo con le sue proposte popolari possa intercettare anche una buona parte dell’elettorato di sinistra sinistra».

Il Partito Democratico viene spesso percepito come un partito dall’identità indefinita, diviso al suo interno sulla posizione da tenere sui vari temi. Si parla spesso della necessità di un manifesto dei valori che ponga dei punti chiari e definisca l’identità del partito di fronte agli elettori. Si stanno facendo passi avanti in tal senso?

«Non sarebbe la prima volta, ma i manifesti purtroppo non portano a nulla nel concreto. Penso che l’elettore medio dopo tante parole, tanti manifesti e tanti saluti voglia vedere le cose nel concreto. Secondo me la politica si fa in questi termini: poche proposte forti, concrete, che diano una chiara direzione al partito.

Per fare un esempio, abbiamo un problema di tipo salariale. Ci sono alcune fasce della popolazione che non sono tutelate dai contratti collettivi nazionali. Vogliamo fare qualcosa per queste persone? Cosa possiamo fare?

Oppure, ci sono moltissime morti bianche, sul lavoro. Facciamo qualcosa affinché un operaio non abbia bisogno di pregare di arrivare a casa sano e salvo dalla sua famiglia?

Cose concrete, come anche le misure per combattere la denatalità, per tutelare le pensioni, per difendere la sanità pubblica e la sua qualità. Questo, del come si viene percepiti, è un tema serio. Se si inizia a puntare su queste cose con delle proposte concrete ritengo che non ci sarà bisogno di alcun manifesto dei valori, perché sarà chiaro a ogni elettore da che parte sta il PD: quella di chi lavora e si suda il salario».

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Giacomo Stiffan

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