Altro giro, altra corsa. Nelle ultime settimane, gli inviati di Usa, Ue, Francia, Germania e Italia hanno visitato Serbia e Kosovo per presentare alle parti la propria proposta per risolvere una volta per tutte l’annosa questione che tormenta i Balcani.
Il Kosovo è un’ex provincia a maggioranza albanese della Serbia. Privata della sua autonomia politica e culturale nel 1989, è divenuta teatro di un violentissimo conflitto tra i miliziani secessionisti dell’Uçk (esercito di liberazione del Kosovo) e le autorità serbe, terminato con l’intervento Nato.
Posto sotto tutela internazionale, il Kosovo ha proclamato in modo unilaterale la propria indipendenza il 17 febbraio 2008, accettando l’architettura costituzionale pluralista impostagli dall’Occidente: rifiuto di ogni simbologia etnica negli emblemi statali, ampia rappresentazione delle minoranze (in particolare quella serba concentrata nel Nord), divieto di cercare l’unificazione con l’Albania.
Da allora la situazione è rimasta più o meno la stessa: la Serbia si rifiuta di riconoscere l’indipendenza del Kosovo non essendo questa frutto di una trattativa bilaterale, né il piccolo Stato balcanico può entrare in Nato e Ue poiché stati come Spagna o Grecia lo riconoscono come tale.
Il nuovo piano di pace
Il nuovo piano di pace targato Usa e Ue (leggasi Francia, Germania e a sorpresa Italia) avrebbe l’ambizione di normalizzare i rapporti tra le due parti e di rimettere in moto il processo di integrazione europea dell’area già avviato nel 2013 con l’accordo di Bruxelles.
La Serbia non sarebbe tenuta a riconoscere direttamente il Kosovo, ma si impegnerebbe a non impedirne l’accesso alle istituzioni internazionali, comprese le Nazioni Unite.
Il Kosovo a propria volta si impegnerebbe a implementare l’accordo sulla creazione dell’associazione dei comuni a maggioranza serba, finora mai portata a termine per il timore di creare uno Stato nello Stato.
La differenza nel nuovo piano è la pressione che i partner occidentali stanno mettendo sulle due parti.
Se l’accordo non sarà accettato – ha riferito il presidente Vučić al parlamento di Belgrado – il cammino europeo della Serbia sarà di fatto congelato, così come diversi investimenti europei nel Paese.
Anche il Kosovo avrebbe, in apparenza, ben poco margine di manovra per opporvisi, dati la sua situazione economica disastrosa e il fatto che gli sponsor del piano sono gli stessi che impediscono alla Serbia di riprendersi la provincia con la forza.
Un nuovo fallimento all’orizzonte?
Uno degli aforismi spicci più presenti sul web, attribuito a ragione o a torto a Einstein, recita: «Follia significa fare la stessa cosa ancora e ancora, aspettandosi risultati differenti». Una definizione piuttosto calzante per il nuovo tentativo occidentale di stabilizzare la regione.
Nonostante la rinnovata pressione, Serbia e Kosovo hanno poco da guadagnare e molto da perdere con il piano.
Per la Serbia, non entrare nell’Ue significa continuare a vivere esattamente come ha fatto finora. Cesseranno dei finanziamenti, ma quella serba è comunque un’economia in crescita.
Inoltre, certe rimostranze a Belgrado danno bene l’idea del costo politico dell’operazione: riferendo in parlamento in merito al colloquio con gli inviati Usa e Ue, Vučić si è ben presto trovato di fronte alle manifestazioni di nutrita parte dell’emiciclo che ha esposto cartelli con “No alla capitolazione”. Rinunciare a impedire al Kosovo di entrare nelle istituzioni internazionali significa di fatto riconoscerne la statualità.
Anche per il Kosovo ci sono davvero pochi incentivi ad accettare il piano. Non c’è nessuna assicurazione che la mancata opposizione serba significhi in automatico l’ingresso nelle istituzioni internazionali: molti altri Stati non ricattabili dai Paesi occidentali sarebbero comunque liberi di votare contro per i propri motivi. Né è possibile alcun ricatto economico perché è difficile che il Kosovo possa finire in un limbo peggiore di quello in cui è oggi.
Finora le parti, come da copione, hanno fatto le solite aperture dilatorie: Kurti – primo ministro kosovaro – aprendo alla possibilità di portare avanti l’istituzione dell’associazione dei comuni serba in cambio di sei condizioni; Vučić, riferendo in parlamento sapendo benissimo quale sarebbe stata la reazione della politica serba.
L’unica differenza sostanziale questa volta è il desiderio dei Paesi occidentali di chiudere una volta per tutte il capitolo balcanico a fronte della crisi ucraina, costi quel che costi.
L’equivalente di mettere un cerotto su una ferita che necessiterebbe prima di essere disinfettata.
Il fantasma della partizione
C’è tuttavia un altro approccio alla questione del Kosovo, l’elefante nella stanza della politica internazionale che nessuno ha davvero voglia di prendere di petto, specie parlando di Balcani: l’ipotesi di una partizione del territorio con il ridisegno dei confini.
Si tratta di un’opzione a cui tutti pensano o hanno pensato: si veda il caso emblematico del non-documento prodotto dalle istituzioni slovene o del sostegno alla proposta di un’icona della sinistra internazionale come Slavoj Žižek.
Serbia e Kosovo, con l’appoggio Usa, parevano indirizzate su una risoluzione di questo tipo nel 2018: il Kosovo avrebbe ceduto le province settentrionali a maggioranza serba alla Serbia – di recente oggetto di disordini sulla questione delle targhe – e il Kosovo avrebbe ottenuto le province a maggioranza albanese della valle di Presevo, in Serbia.
Leggi anche: Le targhe automobilistiche incendiano i Balcani: la nuova crisi tra Serbia e Kosovo.
Le trattative furono stroncate dall’opposizione di diversi Paesi europei, in particolare dalla Germania di Angela Merkel, contraria ad ogni ridefinizione dei confini su base etnica per paura che questo portasse a nuove escalation di violenza.
Si tratta di un timore ragionevole: tentativi di portare la pace attraverso la partizione hanno in passato causato solo dolore e sofferenza, senza risolvere davvero nulla.
Si veda ad esempio la partizione tra India e Pakistan, che ha lasciato centinaia di milioni di musulmani in India e creato due Stati profondamente ostili, o la partizione – rimasta lettera morta – tra Palestina e Israele.
Tuttavia, il desiderio di stabilità e di evitare la violenza spesso ha portato la comunità internazionale nella direzione di creare a tavolino delle realtà sociopolitiche disfunzionali tenute insieme più dalla pressione esterna che da una reale coesione dei propri cittadini.
Il dottore, per paura di uccidere il paziente durante l’operazione, decide di lasciarlo agonizzante in preda alle sue lotte intestine: si guardi all’instabilità cronica in cui versano i Paesi africani con i loro confini tirati con il righello.
La partizione come base per la pace: Trieste e il confine orientale
Nel suo panico scaturito dal pensiero della partizione come soluzione alla questione kosovara, l’Ue (e con essa, ben più grave, l’Italia), dimentica come una questione altrettanto balcanica sia stata risolta in maniera duratura proprio con una decisione di questo tipo: quella di Trieste e del confine orientale.
Una tragedia umana che in molti aspetti somiglia a quella del Kosovo, mutatis mutandis: discriminazione e italianizzazione forzata della maggioranza slovena e croata; atti terroristici da parte degli autoctoni come forma di lotta e resistenza; vendette a danni degli ex dominatori una volta cambiati i rapporti di forza; perdita di territori e esodo di centinaia di migliaia di persone appartenenti all’ex etnia dominante.
Anche lì – al netto dei territori perduti – si cercò all’inizio di risolvere la questione della Venezia-Giulia creando uno Stato a tavolino: il Territorio Libero di Trieste. Uno Stato a maggioranza italiana, dalla bandiera neutra, due lingue ufficiali e un presidente unico.
La comunità internazionale non riuscì mai a trovare un accordo sull’attuazione di quanto previsto sulla carta, complice il contesto della Guerra Fredda e della rottura tra Tito e Stalin, per cui si optò per la partizione con accordi bilaterali tra Italia e Jugoslavia.
Fu un accordo doloroso per entrambe le parti: l’Italia subì l’umiliazione di siglare un accordo con il Paese da cui erano scappati centinaia di migliaia dei suoi cittadini, la Jugoslavia quella di vedersi sottrarre una città dall’altissimo valore simbolico come Trieste. Entrambe, l’umiliazione di trattare con il proprio nemico.
L’area a maggioranza italiana passò all’Italia, quella a maggioranza slovena alla Jugoslavia. Per le rispettive minoranze rimaste in territorio altrui furono stabiliti provvedimenti per la mutua tutela e autonomia.
Da allora – eccetto poche isolate polemiche – i rapporti tra le etnie e i rispettivi Stati sono eccellenti, né si sono incrinati con la dissoluzione della Jugoslavia e la nascita di Slovenia e Croazia.
Non sapremo mai se la soluzione del TLT avrebbe funzionato. Ma l’esempio di Trieste dimostra che la partizione, se fatta con coraggio e ragionamento, può gettare le basi per una pace duratura. Anche nei Balcani.