La politica è imprevedibile. Il problema – o la benedizione – è che lo è sempre di più.
Dopo la sfiorata catastrofe del debito pubblico con l’ultimo governo Berlusconi, e l’intervento salvifico di Mario Monti (sempre sia lodato), il panorama politico non è mai stato così liquido, complice il superamento del bipolarismo a opera dei 5 Stelle.
Il risultato è che mai come oggi gli equilibri politici sono impalpabili: ci vuol poco per salire alle stelle e ancora meno per precipitare al suolo. Ne consegue che quello che fino a poco prima sembrava impossibile, poco dopo diventa una tangibile realtà: la Lega che, data per spacciata nei sondaggi dopo lo scandalo dei cinquantanove milioni di euro, finisce al trenta per cento per poi crollare di nuovo intorno all’otto alle ultime elezioni; il Pd che dal famoso quaranta per cento di Renzi alle europee scende al diciotto e lì rimane; il Movimento 5 Stelle e la sua crescita inesorabile fino a oltre il trenta per cento per poi implodere e risalire al fotofinish; la fulminante esplosione di Fratelli d’Italia dopo il flop salviniano, che da partitino della destra romana arriva fino a Palazzo Chigi.
Non siamo ancora abituati a questo nuovo e fin troppo reattivo sistema politico. Così, quando il consenso si coagula sulla forza politica avversaria, ci sembra una situazione irrecuperabile.
Poi guardiamo alla scorsa legislatura e vediamo un governo di destra (quello giallo-verde), uno di sinistra (quello giallo-rosso) e infine l’istituzionalissimo governo di unità nazionale di Mario Draghi (sempre sia lodato).
Tutti e tre con lo stesso Parlamento e gli stessi parlamentari.
Nonostante questa constatazione, ogni elezione persa ci sembra la fine del mondo, il momento nel quale l’avversario politico prenderà il sopravvento per sempre. Questo vale tanto da una parte come dall’altra, nessuno è immune dal catastrofismo.
Tuttavia dei distinguo sono doverosi. Un conto è chiamare comunista chi ha ripudiato falce e martello decenni fa per ammaritarsi con la parte riformista della Dc, in un Paese dove i comunisti non hanno mai governato davvero tranne che negli innocui governi di unità nazionale del primo dopoguerra. Chiamare comunista chi viene votato più dalle élite urbane e industriali che dagli operai non è solo un controsenso, è disonestà intellettuale.
Un altro conto è il legittimo timore nei confronti dell’estrema destra nel Paese che il fascismo l’ha inventato: è poi cosi insensato nutrire sospetti di postfascismo nei confronti di chi elegge a Presidente del Senato uno che fa la collezione dei busti del Duce e fa vice ministro gente che si traveste da nazista?
Loro lo chiamano folklore, ma è ingenuo crederci. Le cose vanno chiamate col loro nome, senza paura.
Qui va messo un paletto. È vero che i pericoli possono arrivare da ogni direzione, ma una in particolare è più plausibile delle altre: l’unica i cui effetti il nostro Paese ha già provato sulla propria pelle, e di cui non si è mai davvero liberato.
Il simbolismo di estrema destra, anche nelle istituzioni, è sempre più sdoganato. Questo è un fatto incontrovertibile, basta constatare gli esempi appena descritti, ma c’è ne sono molti altri soprattutto da parte di esponenti locali.
Non bastano però i simboli. A fare la differenza è il consenso, e questa destra sembra il pifferaio magico che incanta gli italiani. Ecco perché per chiunque non sia di destra questo è un momento dannatamente difficile.
C’è la sindrome dell’accerchiamento. Il governo è in luna di miele e sembra di assistere a una storia già vista, soprattutto ora che la destra non è più il centrodestra, bensì una cosa più estrema e nostalgica.
Le elezioni regionali sembrano solo l’ultimo chiodo sulla bara di un’opposizione che è una maionese impazzita, con le varie componenti prese a rubarsi il consenso più a vicenda che alla maggioranza.
Pd, Terzo Polo e Movimento 5 Stelle paiono dei nanerottoli litigiosi se paragonati alla triplice alleanza di Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia. Nel frattempo sempre più italiani appendono la tessera elettorale al chiodo. Anche questo è un fatto incontrovertibile.
Infatti, soprattutto per quelli che non votano a destra, questa situazione è indigesta: piuttosto di votare il teatrino di questa opposizione, preferiscono starne fuori. Ne è la dimostrazione il recente voto alle regionali in Lazio e Lombardia, con la vittoria della destra non tanto per merito, quanto per aver perso meno voti verso l’astensionismo, mentre chi votava centrosinistra ha fatto un bel gesto dell’ombrello.
Questa è la sfida principale per Pd, Terzo Polo e M5S: definire come riprendersi i voti di quegli italiani che ne hanno le scatole piene in primis di loro tre.
Di possibili scenari non ce ne sono poi molti: possono combattersi a vicenda a mo’ di Highlander fino a quando ne sopravvivrà solo uno, che da lì in poi potrà giocarsela ad armi pari con la destra, sempre che nel frattempo non nasca l’ennesimo miraggio populista acchiappavoti e fermo restando che ognuno dei tre ha il suo bello zoccolo duro, i dem piu di tutti; oppure chi sta in mezzo, ovvero il Pd, potrebbe scegliere con chi allearsi escludendo il terzo incomodo, che però rischia di catalizzare su di sé il voto di protesta; o ancora, possono ragionare in maniera seria sul campo largo se uova e olio, ovvero Terzo Polo e M5s, mettono da parte i veti incrociati, scendono a compromessi e si lasciano emulsionare per tramite del Pd.
Maionese fatta, tuttavia al momento sembra più probabile vedere gli asini volare.
Al contempo, nessuna opzione è da escludere. Anche Calenda spergiurava non sarebbe mai andato con Renzi, e il M5s che non avrebbe mai governato col Pd. Invece…
Sta di fatto che nessuna di queste tre opzioni è appetitosa sul piano dei numeri, e perdere voti totali in ognuno di questi scenari sembra inevitabile.
La storia recente però ci insegna a non fidarci troppo delle apparenze. Chi è abbastanza testardo alla fine ottiene maggiori possibilità di spuntarla. Su questo vale la pena prendere esempio da Giorgia Meloni: la coerenza nella comunicazione.
Lasciamo perdere il fatto che fino a pochi anni fa sbavava dietro a Putin mentre ora manda armi in Ucraina. Non è una questione di cosa si dice, ma di quali valori si portano avanti e di quanto si è disposti a difenderli.
La politica è l’arte del compromesso, ma fino a un certo punto. Rinunciare alla propria identità pur di governare – o, per meglio dire, per evitare che gli altri governino – non paga, fare le ammucchiate in nome della “responsabilità” non paga, votare le leggi identitarie dell’avversario non paga.
Pd docet.
È anche vero che nessuno può dimenticare come l’elettorato di destra perdonava le incoerenze di Salvini, che da ministro degli Interni era in grado di dire tutto e il suo contrario a distanza di poche ore. Sembrava un rullo compressore nei sondaggi, eppure al primo passo falso Giorgia Meloni – molto più coerente nella sua comunicazione – l’ha sorpassato. A destra, ça va sans dire.
Nel centrosinistra e nel centro liberale questo è ancora più vero perché l’elettorato ha molta più memoria e, nel Pd in particolare, una discreta tendenza al regicidio.
Motivo in più per pretendere una leadership prima di tutto coerente e testarda, che la smetta di basare la propria strategia sulle alleanze elettorali contingenti per spostarla sull’elettorato, su quali italiani vuole convincere e su come fare per riportarli al seggio. Questo lo deve fare in maniera strutturale, lavorando sul lungo periodo. Anche se sul momento può sembrare più conveniente barattare qualche ideale in cambio di qualche ministero.
Infine, una piccola consolazione. Sono passati poco più di centoventi giorni dalla nascita del governo Meloni. Il segnale che si percepisce è che nonostante tutto l’Europa (sempre sia lodata) tiene per la collottola i Paesi furbacchioni.
Soprattutto l’Italia.
Non è un caso che con Mario Draghi alla guida del Paese l’Italia aveva la statura internazionale di un gigante, con un chiaro ruolo da regista all’interno degli equilibri europei.
Meloni, invece, tra un po’ non viene invitata nemmeno a fare le foto, e hanno ragione. Il suo governo senza Berlusconi o Salvini non sta in piedi, e parliamo di due filoputiniani di ferro. Lo dimostra l’ultima sparata del Cavaliere, che nei suoi sogni bagnati vorrebbe vedere Biden che taglia i viveri a Zelensky per imporgli la resa a favore di Putin. Fantapolitica di un politico decotto, ma dal quale dipende la tenuta di questo governo. Alla faccia della destra monolitica.
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