Fino a qualche anno fa, l’ascolto della musica era considerato dalla maggior parte dei fruitori con una certa importanza. A quel preciso momento veniva dedicato una particolare attenzione, quasi una sorta di rispetto. Ad esempio, parlando degli anni Settanta, il rito aveva inizio con l’adagiare sul giradischi dell’album. Dopo aver appoggiato la puntina sul 33 giri, il suono veniva emesso e si ascoltava tutto l’album, fino alla fine.
L’ascolto della musica come rito
Spesso la musica faceva parte di un momento routinario, ad esempio l’ascolto di un album di musica classica la sera prima di coricarsi. Era quindi un’occasione per rilassarsi dopo una dura giornata di lavoro. L’ascolto poteva anche diventare un momento di fraternizzazione: ciò avveniva quando cinque adolescenti eccitati nel pieno del loro carico ormonale ascoltavano il vinile appena uscito del gruppo metal del momento. Il più delle volte tale situazione era accompagnata anche dalla replica delle gesta dei cantanti, con esagerati movimenti del corpo e scuotendo le folte chiome. L’ascolto musicale assumeva quindi, si potrebbe dire, la solennità di un rito religioso, fatto delle sue piccole attenzioni e dei suoi quasi maniacali gesti.
Anche gli album stessi portavano con sé un’idea dietro alla loro creazione. Le canzoni infatti non erano quasi mai inserite in ordine casuale, bensì vi era un senso compiuto nel loro ordine di apparizione. Così come vi era un significato negli intermezzi musicali che venivano scelti con cura dal cantante o dal gruppo in questione. Il fine era quello di dare respiro o continuità al pezzo precedente, facendo sì che vi fosse un filo conduttore, in modo tale da rendere l’album non unicamente una raccolta di canzoni, ma un’insieme che portasse con sé un senso compiuto, più profondo. Il più delle volte, oltretutto, nemmeno d’immediata o facile comprensione. Ma con ogni probabilità pure questo faceva parte del gioco.
L’avvento della tecnologia e la fine del rito musicale
Con l’avvento della tecnologia il concetto di album è andato perdendosi per una serie di diverse ragioni. Fino all’epoca della musica offline, quindi prima con il walkman poi con l’avvento dell’iPod, sebbene vi fosse l’opzione per la riproduzione casuale, gli album nella loro integrità erano ancora rispettati dai più. Non vi era infatti un motivo strettamente necessario per ascoltare le canzoni in maniera casuale. Si acquistava l’album — sebbene sia necessario ricordare che proprio in questo periodo sorsero i primi sistemi di pirateria — e ce lo si godeva nella sua interezza. Ad ogni modo, il fatto che da quel momento fosse possibile ascoltare la musica non solamente obbligati in un posto fisso, quale una stanza di casa o la sala di un bar, ma ovunque e soprattutto mentre si svolgeva qualsiasi attività, iniziò a cambiare il valore assegnato alla musica stessa.
Sebbene la musica abbia sempre avuto anche la funzione d’accompagnamento, sin dalla sua nascita, è innegabile che sia allo stesso tempo costantemente stata portatrice di profondi significati e sentimenti. Basti pensare ai Carmina Burana e al loro forte significato politico. L’iniziare a portare l’ascolto nei contesti più disparati, dallo sport fino al lavoro, ha inevitabilmente comportato un cambiamento valoriale. Si è in parte andato perdendo il concetto del rito, trasformando l’ascolto della musica in qualcosa di più profano, sempre più come accompagnamento e distrazione e meno come contemplazione e riflessione.
Elemento ulteriore che si è andato a perdere è il disco fisico, e quindi anche la possibilità di regalarlo. Regalare della musica è sempre stato un gesto profondamente romantico o, in ogni caso, pregno di un significato. Regalare un disco infatti significava che la persona che riceveva quell’oggetto avrebbe irrimediabilmente pensato, durante ogni ascolto, alla persona che aveva deciso di fare quel gesto. L’individuo veniva portato a fantasticare sul significato di ogni canzone, di ogni singola frase che sembrava dire, con intesa silente, «ecco qui il motivo di questo regalo». Era quindi un’esperienza di profonda condivisione, un po’ come quando si regala un romanzo che tanto ha fatto riflettere. Con la sommessa speranza che, in questo modo, tali riflessioni nate da quelle parole possano sopraggiungere anche ad altri.
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Arriva lo streaming: l’epilogo degli album musicali
Ma ciò che ha definitivamente messo la parola fine al concetto di album, e di musica stessa per come era conosciuta fino a quel momento, è stato lo streaming. In testa a questo fenomeno vi è ovviamente Spotify. Il software è utilizzato a fine 2022 da circa 456 milioni di utenti secondo quanto riportato dalla piattaforma stessa nel suo bilancio trimestrale. Ciò ha portato indubbiamente dei miglioramenti che non possono essere tralasciati. La musica in streaming permette, oltre all’avere un’enorme repertorio a propria disposizione, anche di scoprire nuovi artisti e generi. Questi sono sapientemente consigliati dall’algoritmo che impara, in maniera silenziosa ma costante, a conoscere l’utente. Quali generi si preferiscono, cosa si ascolta la mattina e cosa invece si ascolta la sera. E questo, se non si vuole vedere l’aspetto distopico che forse giace in sottofondo, è un bene.
L’altro lato della medaglia risiede allo stesso tempo nella grande varietà tra la quale è possibile scegliere. Utilizzando queste piattaforme online, infatti, alla fine si è portati inevitabilmente a non scegliere nulla. Non solo si evita così di ascoltare un album dall’inizio alla fine, godendo dei suoi tempi, delle sue rotture e delle sue pause. Ma nemmeno si ascolta davvero più nulla. Ci si accontenta invece delle canzoni più in voga del momento, anche questa volta “suggerite” sempre da lui, il sempre più presente algoritmo.
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Conoscere tutto senza conoscere niente
Quella che si avrà sarà quindi una conoscenza più globale ma al tempo stesso sommaria. Si conoscerà un po’ di tutto ma, nella maggior parte dei casi, non si riuscirà ad avere alcuna conoscenza approfondita. Non si arriverà, dunque, all’anima dell’artista, a quello che realmente vuole comunicare, a ciò a cui aspira. O semplicemente a capire quali sono le sue gioie, i suoi dolori per i quali lancia un disperato grido d’aiuto tramite i suoi pezzi.
Comportamento questo che va in tendenza con lo zombie scrolling. Si tratta di un neologismo coniato appositamente per indicare lo scrollare, ovvero il vedere in una sorta di automatismo sonnambulo un video dopo l’altro, senza avere un reale interesse nella visione stessa. Tornando sul piano musicale, si tratta di ascoltare non per scelta, ma il più delle volte per noia. Spesso senza sentire nemmeno, essendo troppo occupati a fare dell’altro, con il cervello spento. Esattamente come quando i video si susseguono a ripetizione sullo schermo.
In conclusione, per quanti progressi possa avere fatto la tecnologia, ciò che si sta andando a perdere è un qualcosa che molto difficilmente potrà essere rimpiazzato da un’intelligenza artificiale, dall’ormai arcinoto algoritmo. Ci si affiderà quindi a una playlist creata da quest’ultimo che, per quanto completa e varia, non riuscirà mai a raggiungere la profondità di un album pensato da un essere umano. E che peccato.