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Non solo ChatGPT: i tentativi di costruire un nuovo Web – parte 1

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Michel Bellomo

Tra le promesse di ChatGPT, e più in generale dell’intelligenza artificiale, c’è quella di rivoluzionare Internet. Il tempismo è perfetto, vista la condivisa urgenza di andare oltre l’attuale paradigma: gli assistenti intelligenti sono solo l’ultimo tra i nuovi vecchi sogni che vengono riproposti.

Sappiamo che il cambiamento è iniziato, ma non sappiamo dire esattamente dove andremo a parare. Alcuni parlano già di era post-social e gli appassionati di tecnologia probabilmente avranno sentito parlare di Web 3.0 o WEB3, con significati diversi. Probabilmente la vera direzione sarà un misto di tutte le proposte: è il caso di capirle tutte e come ci si è arrivati.

Una breve storia del Web

Partiamo dall’inizio.

Quello che noi chiamiamo generalmente Internet è in realtà il World Wide Web, che nasce a inizio anni Novanta ma si appoggia su tecnologie nate nel corso dei trent’anni precedenti. Il Web che utilizziamo nasce principalmente dalla frustrazione di Tim Berners-Lee, un ricercatore del Cern di Ginevra (quello del bosone di Higgs): l’Internet di allora permetteva di scambiarsi dati e documenti, ma la loro navigazione spesso richiedeva di installare e saper usare i più disparati programmi, allora ben più macchinosi di oggi.

La portata rivoluzionaria del WWW è stata quella di creare uno standard che rendesse i documenti accessibili e interconnessi.

Il fatto che sia nato al Cern implica in primis che per la prima volta era un centro di ricerca europeo a dettare le regole del gioco; e in secundis che è stato possibile imporre la propria filosofia e rendere queste tecnologie libere e gratuite.
Berners-Lee, in realtà, aveva in mente un progetto ben più ambizioso, ma i limiti tecnologici dell’epoca hanno reso la sua visione irrealizzabile.

Tim Berners-Lee, inventore del Web. Foto: Flickr.

Benché fosse chiaro a tutti l’immenso potenziale che il primo Web poteva avere, rimase percepito come un giochino per nerd. In più, oltre a richiedere delle conoscenze tecnologiche ancora poco diffuse, era generalmente lento rispetto alla potenza computazionale di un computer casalingo di allora. Addirittura, finì per essere sbeffeggiato come “world wide wait” da un pezzo di stampa incapace di cogliere la complessità della costruzione di un’infrastruttura tale da rendere Internet davvero alla portata di tutti nel giro di pochi anni.

Le cose iniziarono a cambiare quando, a partire dalla fine degli anni Novanta, vennero introdotte delle tecnologie per sviluppatori che permettevano di avere interattività all’interno delle pagine Web. Quelli che erano dei semplici documenti diventano dei veri e propri programmi. Nasce il cosiddetto Web 2.0, ovvero il paradigma in cui ci troviamo ancora adesso. I consumatori diventano anche produttori di dati, o meglio di contenuti (qualunque cosa questo voglia dire), assumendo così il ruolo di prosumer. È in questo periodo che nasce Google, che diventa molto velocemente uno degli attori dominanti di questo nuovo mondo. Ed è proprio la nascita e lo sviluppo di Google a raccontarci un passaggio fondamentale di questa storia che sarà fondamentale negli anni successivi.

Un aspetto spesso poco sottolineato di Internet è che le sue tecnologie sono nate principalmente dalla spinta degli Stati Uniti, o meglio del suo governo.

Esso, consapevole dei limiti del privato (nonostante la filosofia capitalista affermi diversamente), ha dovuto spingere le aziende a una standardizzazione dei protocolli, dell’hardware e di tutto ciò che riguarda il mondo di Internet violando l’interesse delle aziende stesse ma creando un sistema che ha potuto diventare realmente globale e potenzialmente accessibile a chiunque a prezzi contenuti. Non è un caso che molta parte dell’innovazione di Internet nasca e si sviluppi attorno alle università, gli istituti di ricerca o altre organizzazioni non-profit come l’ISO (Organizzazione internazionale per la normazione). Google nasce proprio in università a partire da una tesi di laurea. Diventata poi azienda, questa è rimasta per diversi anni legata agli ambienti universitari più per ragioni filosofiche che commerciali.

Il Web 2.0, tuttavia, ha introdotto la possibilità di creare applicazioni sempre più complesse. Da qui, i primi prodotti e servizi online, che hanno significato avere non solo dei contenuti fruibili a tutti ma delle merci vendute, con tutte le regole che il mercato impone.

Da qui, la bolla e poi la crisi del dot-com. Ci si inizia a porre seriamente il problema della sostenibilità economica e dei modelli di business adatti a questa tecnologia sperimentale e al nuovo millennio. È in questo clima che Google nasce come azienda e si pone subito come promotrice di innovazione tecnologica e commerciale. Con il crescere dell’organizzazione, diventa sempre più lontana dalle università, pronta a difendere la sua posizione dominante del mondo del Web. I primi giganti di Internet muoiono in fretta o si ridimensionano velocemente, e da loro spuntano nuovi attori mai visti prima pronti a superare i loro predecessori e diventare dei colossi, i social network. Nel pieno dello hype di questa nuova rete il Time elegge you (nel senso di tutti) a persona dell’anno: Internet è appena diventata una cosa di tutti.

A sopravvivere e diventare enormi furono coloro che riuscirono a monetizzare i propri dati, offrendo servizi più o meno gratuiti basati sulla pubblicità. È proprio la pubblicità la base di quasi tutti i modelli di business funzionanti per l’Internet 2.0, per lo meno finora.

La crisi pubblicitaria e il web 3.0

Oggi sono sempre più evidenti i limiti della pubblicità, soprattutto con l’intervento tardivo della giurisprudenza, che finalmente inizia a legiferare seriamente in merito. È questo uno dei motivi per cui si sta facendo sempre più pressante l’esigenza di innovare il Web, ma in realtà il dibattito nacque già a metà degli anni Duemila.

Per molti anni si è parlato, soprattutto nelle università, di Web 3.0 come un Web semantico.

L’idea di fondo era quella di rendere l’intera Internet non solo un insieme di oggetti interconnessi, ma una enorme rete semantica.

Una rete semantica è una struttura in cui una serie di elementi sono interconnessi tra di loro, ma ogni connessione è anche arricchita da una qualche informazione che racconti la natura della relazione. Immaginiamo un albero genealogico: in questo caso è abbastanza facile capire le relazioni, dato che sono insite nella struttura stessa dell’albero. Se unissimo una serie di alberi genealogici, per esempio mettendo insieme tutti gli alberi delle famiglie di una città, unendo tra loro cugini, cognati, nipoti e matrimoni multipli, avremmo una rete semantica.

Applicate questo a tutta Internet. Un’immagine utopica vorrebbe collegamenti di ogni tipo: partite da Maps, e da ogni punto di una città vi collegate ai suoi articoli Wikipedia, siti di ogni attività (commerciale e non), ogni collegamento può portarvi a qualcos’altro senza dover mai uscire dall’app. I documenti urbanistici di un quartiere, le carte catastali del parco sotto casa o qualsiasi informazione possa essere nota, connessa e accessibile sempre e dovunque dalle nostre tasche.

Non del tutto distante dalla realtà, vero? Questo perché il tentativo di spingersi in quella direzione c’è stato, e non senza risultati. Il fulcro del Web semantico, coerentemente con i piani originali di Berners-Lee, è quello di sfruttare totalmente il potere dei dati e delle informazioni, immettendole in rete.

Un’Internet non più come un gigantesco archivio virtuale, ma come il database-oracolo da consultare per qualsiasi cosa.

Se le interazioni con questo oracolo fossero automatizzate, addirittura gestite da intelligenze artificiali, otterremmo così una sorta di mega-cervello globale a disposizione di tutta l’umanità. Una bella utopia, molto lontana dall’immaginario distopico che da Black Mirror in poi è associato alle aziende informatiche.

Nonostante più di un decennio di tentativi, questa idea di Internet non ha mai visto veramente la luce. Le motivazioni principali sono due. La prima è di natura tanto tecnica quanto economica: costruire un Web di questo tipo, o anche solo un piccolo pezzo, richiede uno sforzo non indifferente da parte di molte persone altamente qualificate ma che devono fare un lavoro altamente ripetitivo. In più, la progettazione della rete semantica e delle sue connessioni si pone di fronte a dei problemi non sempre risolvibili. Questo sforzo spesso non vale i finanziamenti necessari o, quantomeno, mal si sposa con le esigenze di monetizzazione di chi deve creare e mantenere viva la sovrastruttura, sia software che hardware, necessaria a tenere in piedi questo sistema.

Post che ironizza sui fallimentari progetti di un nuovo Web, che di fatto si trasformano solo in un peggioramento dell’esperienza utente

Il secondo motivo è di natura squisitamente economica: il Web 2.0 ha visto l’affermarsi di una serie di oligopoli e mercati saturi in cui ci sono pochi giganti con in mano un enorme controllo sul settore. Tra questi abbiamo Google e Facebook (ora Meta), che vivono grazie alla pubblicità, e Amazon, che nonostante sia nota principalmente per il suo servizio di e-commerce guadagna principalmente dai suoi servizi web, soprattutto con il Cloud.

In tutti questi casi, sono i dati degli utenti la vera miniera da cui vengono estratti tutti i guadagni.

Un Web semantico richiederebbe una standardizzazione e una condivisione di dati che è completamente incompatibile con le logiche economiche che sorreggono l’attuale Internet. Inutile dire che nessuno degli attori del Web è disposto a rinunciare a parte del controllo su questi dati, anzi li difendono a denti stretti e non per ragioni di privacy: sarebbe economicamente insensato. Sarebbero sicuramente da citare anche Microsoft e Apple, ma il loro impero economico va ben oltre Internet che per ora non ne costituisce il core business.

In generale, lo strapotere economico di questi attori assume anche un connotato politico. Non solo la giurisprudenza fa fatica a stare al passo con la velocità delle innovazioni (si pensi a con quanto ritardo è nato il GDPR, e solo dopo l’enorme scandalo Cambridge Analytica), ma mancano spesso la volontà e la consapevolezza nei cittadini dei vari Stati e quindi nei loro governi. Per chi abita giornalmente il Web e ne conosce un minimo le dinamiche, questo è generalmente visto come un problema. Il Web3 nasce principalmente con la voglia di superare questo enorme accentramento di risorse e di potere.

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Michel Bellomo

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